Il Foglio sportivo
Viaggio nella Roma all'americana che non funziona più
I Friedkin hanno speso quasi un miliardo di euro, non parlano in pubblico, a parte qualche ristretto collaboratore nessuno ha mai sentito la loro voce, ma licenziano gli allenatori: una storia da raccontare
Ma ce fanno o ce so’? A Roma la domanda si rincorre lungo i sentieri della passione giallorossa. Ma visto il clamore degli ultimi eventi, abbraccia anche l’universo laziale e quello del vecchio caro Generone, tra imprenditori, politici, finanzieri. Perché dall’agosto di quattro anni fa la famiglia Friedkin è proprietaria della Roma, nella quale – centesimo più centesimo meno, ha investito finora quasi un miliardo di euro. Insomma, mica caramelle. Ed allora la risposta sarebbe: ce fanno. Vale a dire, fanno i finti tonti, i finti sprovveduti. D’altronde non accumuli un patrimonio di oltre 7 miliardi di dollari per caso, salendo nel gruppo dei duecento uomini più ricchi degli Stati Uniti e tra i primi cinquecento del mondo. E allora? Perché questa crisi di un asset come l’As Roma che offre molta visibilità, non solo in Italia?
Le risposte sono molte e abbracciano anche le molte curiosità – chiamiamole così – di questa famiglia di texani, capitanata dal presidentissimo Dan. Che col figlio Ryan ha scelto un asset sportivo dall’altra parte del mondo per fare business. Aggiungendoci – altra anomalia – gli inglesi dell’Everton. La più clamorosa di tutte è che padre e figlio non parlano in pubblico. A parte qualche ristretto collaboratore, nessuno ha mai sentito la loro voce. Mai una conferenza stampa, una dichiarazione, un saluto. Al massimo, qualche stringato comunicato. Solo una volta, a un raduno di aerei – la grande passione di Dan che ama pilotare personalmente i jet quando viene in Italia – a Pratica di Mare, un giornalista intercettò pochi secondi di slang texano con la voce sottile quasi in falsetto. Loro, a differenza del connazionale James Pallotta che parlava a più non posso (anche a sproposito), tacciono. Dei Salinger della parola.
Il vasto patrimonio certificato e le mosse strategiche sorprendenti, prima tra tutte l’ingaggio di José Mourinho, avevano fatto alzare le spalle ai tifosi. E chi se ne frega se stanno zitti. Bei tempi. Ed in effetti quello del 2021 al 2023 è stato, per così dire, il periodo migliore. Lontano da algoritmi e scelte esterofile. La vittoria in Conference League, a riempire la desolante bacheca dei trofei a Trigoria, quindi la finale contro il Siviglia a Budapest quella dell’arbitro Taylor preso a sediate dai tifosi all’aeroporto (dopo gli insulti di Mou a fine gara) per un rigore che poteva cambiare la storia recente giallorossa.
Da quel giorno – dopo Dybala e il colpo Lukaku, prelevato con spettacolarità a Londra e condotto a Ciampino con Dan alla cloche del suo Falcon – qualcosa si è rotto. E il precipizio giallorosso è diventato una discesa libera che non si è ancora conclusa. Perché dalla notte di Budapest, lo Special One ha ingaggiato coi fischietti del mondo una crociata senza quartiere che non è piaciuta a quelli della Friedkin Group. Così, nel gennaio del 2023, ecco il solito volo transatlantico, l’arrivo a Trigoria di prima mattina e il benservito choc a Mou che aveva intuito qualcosa, ma non pensava a un epilogo degno delle Idi di Marzo. A quel punto: Daniele De Rossi, una delle icone della religione romanista, l’unico che poteva anestetizzare lo choc per l’addio del portoghese che aveva riempito l’Olimpico a ogni partita. Con DDR, per un po’, la Roma ha fatto cose egregie. Poi, finito l’effetto emozionale, si è pensato al futuro.
E qui è emerso, deflagrante, l’altro aspetto dei Friedkin, allergici alla romanità, anche cittadina. Per la trattativa conclusiva con Pallotta riservarono un intero hotel sul litorale laziale, altro che le suite con vista su Piazza del Popolo e passeggiate turistiche del predecessore. E la scelta di collaboratori non italiani. Direttore sportivi stranieri – prima il portoghese Pinto, poi il francese Ghisolfi – e soprattutto la plenipotenziaria Lina Souloukou, che Mourinho ribattezzò la Giraffona. Algida, greca, con poca dimestichezza col pallone, ma spietata nel ruolo di tagliatrice di conti e di personale, vera reginetta (perfida anzichenò) nel recinto di Trigoria. Con lei prima Mourinho e poi De Rossi non hanno legato (eufemismo) fino all’esonero di Danielino suggerito dalla Nostra ai texani, perché non funzionava più. Dan e Ryan si sono fidati. E, pentiti del rinnovo di tre anni a De Rossi, vergato all’inizio dell’estate scorsa malgrado l’opposizione di Lina, hanno compreso che lei aveva ragione e loro torto. Salvo poi scoprire l’opposta realtà. E spingere fuori dal cancello di Trigoria la stessa Giraffona con delle dimissioni fortemente indotte. Ma la frittata era fatta. Juric – assistito dal procuratore Riso, lo stesso di Palladino che Lina voleva al posto di De Rossi fin dall’epoca del rinnovo del contratto a DDR – è stata una jattura. Avulso all’universo giallorosso, senza una squadra adatta al suo calcio rustico e da battaglia, il croato ha prima provato a fare il buonista – va tutto bene, stiamo crescendo, mi trovo benissimo – e poi ha sclerato, accusando la squadra di aver spedito nel cesso 40 giorni di lavoro. Il resto è attualità e il brodino della vittoria contro il Torino non cambia il panorama.
Con i Salinger della parola presi idealmente a schiaffi da tifosi e critica (brutale Boban a Sky: vergognatevi), intenti a cercare una strategia d’uscita in attesa che lo stadio faccia crescere il business. Perché dopo il miliardo di euro investito, ci vorrebbe un’offerta superiore anche di un centesimo. Ma oggi la Roma non vale nemmeno la metà (stadio a parte, che nella capitale ricorda il cartello: domani si fa credito). Ed allora si prosegue tra silenzi e scelte sorprendenti. Ma ce fanno o ce so’? Nella capitale assediata da turisti-cavallette e traffico impazzito per i lavori del Giubileo, la domanda non trova risposta. Andrebbe aggiornata la famosa battuta dell’avvocato americano del boss Badalamenti rivolto ai giudici antimafia: al mondo ci sono tre certezze: la morte, le tasse e il silenzio di Badalamenti. Anche quello dei Friedkin, tuttavia, si fa strada nell’universo vivere.