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Il Foglio sportivo

Garozzo lancia l'allarme scherma

Bernardo Cianfrocca

Per un'improvvisa malformazione cardiaca il fiorettista si è dovuto ritirare dallo sport che ama, ma è pronto a offrire un contributo diverso: non più con le medaglie e i titoli, ma con le idee

Parata e risposta. La sequenza dei colpi nella scherma insegna che, per attaccare, bisogna saper reagire alle mosse avverse. A volte capita di incassare la stoccata. Nessun problema: si pensa già all’assalto successivo. Anche togliendosi maschera e corazzetta. Daniele Garozzo, fiorettista, ha dovuto rinunciare alle Olimpiadi di Parigi, a pochi mesi dall’inizio, per un’improvvisa malformazione cardiaca. Quasi una beffa per un medico, laureato in Medicina con tesi in chirurgia vascolare. Garozzo è anche l’ultima medaglia d’oro olimpica a livello individuale della scherma italiana. L’ha vinta a Rio de Janeiro otto anni fa. Una distanza eccessiva, anche per chi potrebbe considerarla un vanto: “È passato troppo tempo. La scherma italiana è a un crocevia, bisogna metterci le mani ora. Ci sono diverse criticità che possono essere di difficile risoluzione”.

 

Ecco il contrattacco. Dopo aver incassato il colpo improvviso del ritiro, Garozzo è pronto a offrire un contributo diverso per il suo sport. Non più titoli, ma idee. Dal pericolo percepito nasce la candidatura per diventare consigliere federale: “È innegabile che i risultati siano calati, anche per una maggiore internazionalizzazione della disciplina. Lo stato di salute del nostro movimento non è negativo, ma altri paesi lavorano molto bene e lo si nota soprattutto a livello giovanile. In una recente tappa del circuito Cadetti di fioretto maschile a Samorin (Slovacchia, ndr), 9 dei primi 16 atleti erano americani. I loro investimenti nel sistema collegiale stanno funzionando”. Il bacino da cui attingere per formare nuovi atleti è uno dei problemi: “Non ci sono solo gli Stati Uniti. L’Asia a Parigi è stata la vincitrice del medagliere di specialità con 4 paesi tra i primi 6. Ma la differenza è abissale anche con i nostri vicini. La Francia ha circa 350mila tesserati, i nostri sono 20mila. Inevitabile che con questi numeri si faccia fatica. Si deve intervenire subito per essere competitivi tra 8/12 anni”.

 

Cercare tanti potenziali schermidori è un obiettivo. Bisogna poi formarli: “Nell’impostazione dell’atleta ci vuole esigenza e rigore. Ritrovo questi metodi negli americani e negli asiatici”. L’esempio è dato anche dalla sua formazione: “Io sono cresciuto ad Acireale, alla scuola di Mimmo Patti. Aveva 20 atleti e 4 hanno conquistato medaglie olimpiche (anche suo fratello Enrico, Marco Fichera e Alberta Santuccio, tutti spadisti, ndr). Noi passavamo molto tempo in palestra, quasi fosse un doposcuola dove fare anche i compiti”. Il discorso diventa culturale e generazionale: “All’inizio è indispensabile la componente ludica, la battaglia quasi. Ma la scherma è l’arte marziale dell’Occidente e quindi deve poi subentrare un allenamento più rigoroso, che preveda anche il rimprovero. Oggi ho come l’impressione che verso i bambini ci sia una maggiore protezione, ma serve che abbiano una predisposizione alla sconfitta e a mettersi davvero in gioco”.

 

L’accettazione della sconfitta ha creato un dibattito anche durante le Olimpiadi, soprattutto sull’inopportunità di svilire un atleta in caso di mancata medaglia. Garozzo stesso aveva polemizzato con chi rivendicava la narrativa della “cattiveria” come componente necessaria per vincere. “Non credo sia giusto che alcuni atleti, tra l’altro già vincenti, vengano definitivi 'bravi ragazzi' come fosse un declassamento, magari solo per il modo di porsi”. L’altro lato della medaglia però esiste ed è un rischio da evitare: “Sono felice ci sia più sensibilità su certe tematiche, ma la sconfitta funziona se diventa uno stimolo. Il campione deve volere sempre di più, accettare il risultato è giusto, ma l’aver dato tutto non può trasformarsi in autocompiacimento”.

 

Parole che indicano un vuoto che non se ne andrà mai: “Mi manca gareggiare e competere e mi mancherà sempre”. Ciò non vuol dire però che il ritiro non sia stato metabolizzato: “Il problema di salute era fuori dal mio controllo e disperarsi non ha mai avuto senso. La mia nostalgia per la scherma sarà sempre felice e non malinconica, come per l’amico delle elementari che non rivedi più e ricorderai sempre col sorriso”. In questo caso l’amicizia è durata fino alla laurea: “Non sarei stato campione olimpico senza lo studio e non sarei diventato dottore senza lo sport, non sono autoescludenti. Peccato che siamo ancora molto indietro nel percorso studente-atleta. Si potrebbe investire di più sui gruppi sportivi universitari”.

 

Le idee non mancano di certo: “Credo che un altro obiettivo sia rendere più comprensibile la scherma ai non praticanti e molto passa dall’arbitraggio. A Parigi ci sono stati errori, ma non scandalosi. Mi ha inorgoglito molto la reazione di Macchi dopo la sua finale, da vero sportivo. Certo però che l’intelligenza artificiale a sostegno degli arbitri potrebbe rappresentare una salvezza, va inseguita”. Un po’ come Garozzo continua a inseguire la scherma: “Mi ha formato come uomo, ora devo restituirle qualcosa”.

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