Il Foglio sportivo

“Senza Maradona sarei un semplice commerciante”. Parla Valerio Antonini, il vulcano di Trapani

Francesco Gottardi

Oggi è un broker del grano internazionale, dopo aver sbloccato enormi ricchezze altrimenti precluse all’occidente: “Porterò il calcio in Serie B e il basket allo scudetto. Tutto grazie a Diego”. Intervista all’altra mano de Dios

L’asticella si alza. Anzi, non esiste: “Il mio Trapani basket può competere per lo scudetto. Qui e ora”. Da neopromossa. “Non significa nulla. Abbiamo comprato il meglio, spendendo tanto: puntiamo almeno alla finale. Poi all’Eurolega. E col calcio dobbiamo salire in Serie B a tutti i costi”. A sentire Valerio Antonini – presidente, imprenditore, tutto – sembra di avere a che fare con un vulcano. Che sbuffa, erutta e spazza via la realtà. “Nella vita ci sono due categorie: chi è abituato a perdere e chi invece vuole vincere. Io sono come Mourinho, Ibra, Ancelotti. La vittoria è l’unico modo per zittire gli altri. E noi oggi abbiamo l’occasione di scrivere la storia dello sport italiano”. Nel nome di Maradona. “Mi manca ogni giorno. Lo porto con me in ogni cosa che faccio. È la persona e l’amico a cui devo tutto. Ogni tanto m’immagino come sarebbe averlo direttore tecnico qua a Trapani: altro che Netflix, verrebbe il mondo per girarci un film”.


A sentire Valerio Antonini sembra anche di avere a che fare con un mitomane. Poi però basta uno sguardo ai risultati – al prima e al dopo di lui – ed ecco che i fatti danno corpo alle spacconerie. Da queste parti la pallacanestro era sparita dalla Serie A nel 1992: vi ha fatto ritorno lo scorso giugno, dopo appena un anno di rifondazione societaria, e ora gli Shark già sprintano in zona playoff. “La tripla-promozione di Matteo Imbrò, in faccia ai dirigenti della Fortitudo, è un’immagine che non dimenticherò mai. E penso nemmeno loro”. È un tipo da prendere o lasciare, Antonini. Nello stesso periodo compra anche il club di pallone, nel pantano della Serie D in seguito a fallimento: professionismo centrato al primo colpo. Ma non basta. Nonostante i successi, a tratti da record, gli allenatori di entrambe le squadre hanno pagato con l’esonero (Daniele Parente nel basket a marzo, Alfio Torrisi nel calcio a settembre). “Vi ricordate i giornali come reagirono quando mandai via il primo? E poi sappiamo com’è andata a finire. Sono abituato a gestire le pressioni. Quello che mi spaventa semmai è notare che le persone attorno a me non danno più il 100 per cento”. Assist facile. Il giorno prima di questa chiacchierata con il Foglio sportivo, Antonini aveva presentato la fase di sviluppo del progetto Nuovo polo sportivo città di Trapani: una cittadella polifunzionale da 80 milioni di euro. Stadio da 20mila posti e palazzetto da 8mila. Più hotel, ristoranti, cinema, foresteria, area commerciale. Qualcosa di mai visto in Sicilia. “E che presto invece vedranno tutti: il futuro del territorio è in questi 26 ettari”.

 

                                


Si rifugga la sindrome del Gattopardo. “È ora di finirla: questa regione è più bella e vivibile della Lombardia”, esorta il patron. “Negli ultimi due secoli il nord ha avuto maggiore sviluppo. Ma non è sempre stato così: ora la storia si deve riequilibrare per l’intero paese, verso una crescita a 360 gradi. Dobbiamo attrarre i giovani del sud e farli rimanere a lavorare nel sud. La mia Trapani sia da esempio: non si deve avere paura di investire in Sicilia. Anche i grandi fondi internazionali l’hanno capito, basta vedere il Palermo calcio. E oggi le istituzioni mostrano maggiore interesse verso progetti come il nostro”. Merito anche del fattore Cupido. “Io ormai ho la cittadinanza onoraria, ma mia moglie è trapanese di nascita: dietro le grandi scelte c’è sempre l’amore”.


Ma insomma, da dove è venuto Valerio Antonini? Come e quando? Laziale, 48 anni, imprenditore agricolo. La stampa locale lo guarda con sospetto – all’interno di una lunga inchiesta, Tp24 lo battezza “nuovo re”, sottolineando la sua amicizia col lobbista Luigi Bisignani. Lui la rivendica, e ne racconta un’altra. Frutto di una precedente esperienza nel calcio – due decenni fa, alla Palmese – che oltre alle sfortune societarie portò una manna colossale: la conoscenza del Pibe de Oro. “Un uomo difficile, al quale era difficile stare vicino”, ricorda il presidente. “Il suo sorriso vale più di ogni sua disgrazia. Negli anni fra noi si era instaurato un eccezionale rispetto reciproco”. La voce vola all’ottobre del 2018. “Ero a Miami, stavo per raggiungerlo a Dubai per il suo compleanno. Mi chiama un amico in comune: ‘Diego ti vuole salutare’. E lui mi dice: ‘Sei stato l’unico che non mi ha mai chiesto soldi, e mi ha fatto solo guadagnare’. C’era una vena di tristezza, in quelle parole, per tutte le persone attorno a lui che l’avevano usato come bancomat. Un apprezzamento raro”.

Specchio di un sogno folle. “Ribadisco: senza di lui sarei un semplice commerciante”. Oggi invece Antonini è un broker del grano internazionale, dopo aver sbloccato enormi ricchezze altrimenti precluse all’occidente: è stata l’altra mano de Dios. “Mi viene in mente un viaggio di dieci giorni senza dormire tra Cuba, Nicaragua e Venezuela. Una serie di affari clamorosi, la svolta della mia vita: io e Diego fino alle 6 del mattino a ridere e parlare”. All’avventura del Sudamerica canaglia (idealista? fate voi). “Gli incontri con Ortega, Maduro, Kirchner, Fernández, Morales. Potrei stare qui a raccontare per mesi. Tutto era possibile perché c’era Maradona: lui rappresentava la mia figura di trader, io ero l’unica persona di cui si fidava e così mi assegnava il 100 per cento dei rapporti istituzionali coi presidenti”. Tradotto, accordi per forniture alimentari a paesi interi. Miliardi. “Fosse stato più presente e meno avvinghiato a certi personaggi, avremmo fatto pure di più. Tutto era ridotto a quei 10-15 giorni all’anno in cui era disponibile a viaggiare. Figurarsi cosa sarebbe stato Diego a pieno regime”.

 

                     


Dietro il testimonial, l’anima fragile. “Quando era lucido aveva sempre la battuta pronta, con un’umanità incredibile”. Antonini è un treno di memorie. “I compleanni a Buenos Aires, L’Avana, Dubai. Tra karaoke, balli e musica dal vivo. Diego amava fare casino. Era un festaiolo puro: andavo a trovarlo per lavoro, finiva per cantare il repertorio romantico latino-americano”. Ma nella vita di tutti i giorni “era un uomo solo. Tutto il tempo a letto, davanti alla tv. Deluso dalla famiglia, abbandonato dal calcio e dal Napoli: nessuno dopo il Mondiale in Sudafrica credette più in lui”. Per il patron del Trapani, “il dispiacere eterno è non esserci stato alla sua morte in Argentina. Ricordo ancora il messaggio del suo avvocato: mi trovavo a Londra, ho passato tre ore senza riuscire a parlare. Se n’era andato un amico, un partner, un confidente. Per colpa di chi lo accantonò in un tugurio: ci fossero stati ancora uomini del calibro di Fidel o Chávez, l’avrebbero salvato di nuovo”.


Quell’evento fu anche lo spartiacque di Antonini. “Ritorno in Europa, divorzio. Arrivo in Sicilia e mi risposo. Due anni prima di morire Diego profetizzò: ‘Farai un altro figlio e lo chiamerai come me’. All’epoca mi pareva impossibile. Oggi invece porto a scuola il piccolo Diego Armando”. E pure allo stadio. “Ho fatto dipingere un murale all’ingresso: sullo sfondo la città, davanti Maradona con la maglia del Napoli che prende in mano mio figlio con quella del Trapani”. O qualche altro bambino. “Il futuro campione, cresciuto nelle nostre giovanili: il giocatore da sogno dev’essere quello che m’invento io”. Largo al factotum.