Il Foglio sportivo
L'infinito momento magico di Magic Johnson
L'ex campione dei Lakers ha vinto il suo 15° anello tra campo e scrivania. I segreti della sua vita in più di 400 ore di interviste, dai successi in campo alla malattia. Con un sorriso che non si spegne mai
Il suo sorriso arriva sempre prima di lui. Lo vedi da lontano mentre corre verso di te su una delle strade più belle del mondo. Non c’è estate, negli ultimi anni, che Magic non sia venuto in vacanza in Italia, ancorando il suo yacht a Portofino. È facile incontrarlo mentre fa jogging sulla strada panoramica che porta a Santa Margherita. Sorride anche quando gli chiedi un selfie. Sorride quando si mette in posa con il ristoratore che gli ha appena servito un piatto di pansoti e con la ragazza che ha appena impacchettato la borsa scelta da sua moglie Cookie. Distribuisce sorrisi come una volta distribuiva assist. Anche oggi che è uno degli sportivi più famosi d’America e uno dei proprietari più vincenti. Magic è l’uomo che ha cambiato il basket, battuto l’Aids e collezionato la bellezza di 15 anelli, i simboli della vittoria in un campionato professionistico americano. Ne ha vinti 10 Nba con i Lakers, uno Ncaa con gli Spartans e poi come proprietario due con i Los Angeles Dogders nel baseball, uno con il Los Angeles Fc nel calcio e uno con le Los Angeles Sparks nel basket femminile. Un vero signore degli anelli.
Per capire Magic non c’è niente di meglio del libro di Roland Lazenby appena pubblicato in Italia da 66thAnd2nd. Un volume infinito, frutto di più di quattrocento ore di interviste con il mondo che ruota attorno a Magic e con Magic stesso. La prima domanda a cui Lazenby prova a dare risposta è: “Come può un uomo di quella stazza muoversi così in fretta, palleggiare così alto, virando a destra, poi dall’altra parte, cambiando ogni volta direzione?”. Forse perché quel soprannome, Magic che tanto dava da pensare a mamma Christine, non era un solo soprannome, ma pura cronaca. Earvin Johnson Jr era magico di nome e di fatto. “Era una guardia di due metri e sei che andava da solo in contropiede. Non avevo mai visto nulla del genere”, disse Larry Bird dopo averlo incontrato per la prima volta, prima che la loro sfida diventasse un simbolo per il basket e lo sport in genere. Magic era una sfida alle leggi della fisica. Non aveva bisogno di trash talk. Lui sorrideva e ti metteva nei guai. Quando è arrivato ai Lakers, prima scelta al Draft del 25 giugno 1979 era solo un progetto. Ma gli è bastato poco per impossessarsi del gioco, della squadra, della città. Con lui è nato lo showtime, con lui le partite dei Lakers sono diventate il posto dove essere e l’Nba la lega dei sogni.
Earvin è diventato Magic verso la fine dell’autunno 1974. Fu l’intuizione di Fred Stabley, giovane giornalista del Lansing State Journal che aveva il vizio di dare a tutti un soprannome. “Quando me lo trovai davanti gli dissi che dovevamo trovargli un soprannome. Big E non si può perché lo usa già Elvin Hayes, Doctor neppure perché è già di Julius Erving. Che ne dici di Magic?”. Earvin lo guardò per un istante e rispose: “A me va bene, signor Stabley”. Ma quel soprannome dovette attendere qualche tempo per diventare pubblico. “Aspettai – racconta Stabley a Lazenby – Non ebbi le palle di chiamare un quindicenne Magic”. Un mese dopo quando lo vide segnare 36 punti (18 rimbalzi e una marea di rimbalzi) però Earvin divenne Magic sul giornale di Lansing e ben presto per tutto lo stato. Non passò molto che fu Magic per tutta l’America e poi per tutto il mondo. Nonostante mamma Christine non fosse felice di quel soprannome. Lei, donna molto religiosa, non vedeva di buon occhio la magia e soprattutto aveva paura che per suo figlio “potesse diventare un fardello troppo pesante da portare”. Così nacque Magic anche se l’uomo che inventò il soprannome non lo ha mai chiamato così di persona… “Era una soprannome perfetto, per il modo in cui guardava da una parte e passava dall’altra”, riconobbero compagni e avversari. Qualche problema con i compagni bianchi della Everett lo ebbe all’inizio. Ma poi cominciò ad affascinare tutti. Professori e compagni. "Non puoi costringere gli altri ad amarti, ma Earvin si faceva amare da tutti, perché non gli interessava se lo amavi o meno. Non era quel genere di persona”, racconta Charles Tucker, psicologo della scuola.
Tutta la storia di Johnson alla high school, iniziata con i problemi razziali, fu quasi surreale. “Earvin ha avuto un grosso impatto su tutti alla Everett, compresi gli insegnanti, che lo adoravano – racconta il suo allenatore Fox – E la verità è che molti di loro si rivolgevano a lui se avevano problemi nelle loro classi. E lui parlava con i ragazzi. So che lo ha fatto. Ha offerto davvero un enorme contributo all’integrazione. Certo, abbiamo avuto i nostri problemi, non dico di no, ma allo stesso tempo so che è stato di grande aiuto”. Speciale in campo e fuori. “E’ stato un beneficio sia per i bianchi che per i neri – ha detto Tucker – Aveva una grande forza di volontà, come adesso. E in tutto ciò che faceva c’era sempre una sorta di integrità. Amava le persone. Prendeva posizione a favore di tutti, a prescindere dalla razza. Si esponeva per ciò che riteneva giusto… rispettava gli altri. Li onorava…”. Non si drogava, non beveva, non fumava. Ballava. Ballava in campo e fuori. E con il passare del tempo, con l’arrivo ai Lakers, cominciò a non ballare da solo. Cosa che dopo aver cambiato il basket per sempre, lo portò ad affrontare un nuovo avversario: il virus Hiv. Lo annunciò nel novembre del 1991 in pieno Showtime e poco dopo essersi sposato con Kelly, la “Cookie” che ancora adesso è al suo fianco.
L’America non aveva idea della sua vita segreta, della sua dipendenza dal sesso. La scoperta, un paio di settimane prima dell'annuncio, fu travolgente. Come la paura di perdere la partita. Il primo pensiero, quando gli fu comunicata la positività fu: “Questa è una sentenza di morte”. Rifece il test quattro volte. Sempre positivo. Ma lui non cambiò atteggiamento, uscendo dallo studio medico si fermò sorridente a firmare tre autografi. Ma a Magic restava ancora la cosa più difficile da fare: dirlo a sua moglie che era incinta. “Fu il tragitto in auto più lungo della mia vita. A quei tempi pensavo che la cosa più difficile era giocare contro Jordan o Bird. In realtà, fu tornare a casa per dire a mia moglie che ero sieropositivo”. E poi dirlo a decine di altre partner incontrate negli ultimi mesi. Per Cookie fu come andare all’inferno. Per la famiglia anche. Ma nulla si ruppe. La forza della squadra, la forza dell’amore. La sieropositività non divenne Aids. Il mondo cominciò a capire meglio la malattia. I fondi per la ricerca aumentarono per aiutare Magic e i malati come lui. Forse non si può parlare di miracolo. Ma almeno di qualcosa di magico sì. Nel febbraio del 1992 tornò a giocare. Nell’estate di quell’anno fece parte del mitico e originale Dream Team. Il resto è storia. Il successo dell’imprenditore. Il matrimonio che continua. Gli anelli che si accumulano come i milioni. E il sorriso che non si spegne mai.