a canestro
Lo strano caso dei Cleveland Cavaliers imbattuti in Nba
Con 11 vittorie e zero sconfitte, la franchigia dell'Ohio ha centrato la miglior partenza della propria storia ritoccando diversi record: merito di un allenatore che fino all’anno scorso era il vice di Steve Kerr. E che oggi sta facendo vedere il suo gran bel basket
Ingranata la decima, si è sciolto anche coach Kenny Atkinson. “In qualche modo è un numero magico. Ed è più di qualcosa, per una franchigia come la nostra”. Oggi lo score dei suoi Cleveland Cavaliers, 11 vittorie e 0 sconfitte, li ha resi una delle 12 squadre a essere partite meglio nella storia dell’Nba. L’unica a inanellare dieci gare di fila con almeno 110 punti di media. L’unica a centrarne 11 con almeno 105. A leggere i puri numeri, pare che quest’estate in Ohio abbiano allestito il roster del secolo e nessuno se ne sia accorto. In realtà è cambiato soltanto l’allenatore. E per quanto sia terribilmente presto per gridare all’impresa sportiva – un ottavo di stagione vale mezzo spicchio –, i record restano. E resteranno. Il pubblico della vecchia Q Arena non sognava così dai tempi del miglior LeBron James.
Il problema, quando c’è di mezzo qualcuno che tutt’a un tratto non perde più, è che prima o poi dovrà tornare a farlo. Così tutta l’Nba gufa. È da settimane che aspetta i Cavs al varco. Mitchell e compagni sprintano, sorprendono, poi due tiratissime sfide contro Milwaukee – la settima e l’ottava W – sembrano il preludio all’inevitabile primo stop. Dietro l’angolo c’è Golden State, pure in grande spolvero. Candidata ideale, e invece no: Cleveland domina, toccando il +41 a fine primo tempo. Una schiacciasassi. Anche quando non è serata: domenica notte, all’inizio dell’ultimo quarto, i padroni di casa erano sotto di 13 contro Brooklyn. Poi s’è alzato il muro di Evan Mobley – 23 punti, 16 rimbalzi, 10/11 dal campo più stoppata decisiva – ed ennesimo punto esclamativo. Almeno fino al prossimo match.
La forza di questi Cavaliers è nel collettivo. E in un’equilibrata ripartizione dei ruoli. A partire dai suoi “big three”: durante il ruolino di marcia, per quattro volte a testa i migliori realizzatori sono stati Mitchell e Garland, per le restanti tre Mobley. Un dosaggio che si riscontra anche nelle lunghe rotazioni di coach Atkinson: dieci giocatori stanno disputando almeno 15 minuti a partita, ma nessuno più di 30. Il risultato è un’efficienza realizzativa da manuale. Sintomo di una squadra fresca, lucida, concreta: Cleveland sfoggia il miglior attacco del torneo – oltre 122 punti di media –, la miglior percentuale dal campo (52,8 per cento) e la migliore al tiro da tre (42,2). È metodo, non transitoria euforia.
Menzione d’onore all’allenatore, appunto, giunto quest’anno per alzare l’asticella di un gruppo che nelle ultime due stagioni aveva fatto intravedere grandi cose in regular season salvo poi squagliarsi alla prova playoff. Nell’ultimo quadriennio, Atkinson invece ha studiato. Dapprima da vice sulla panchina dei Clippers, poi nelle stesse vesti alla corte californiana di Steve Kerr: un’esperienza enorme, con tanto di anello, che a giudicare dalla gara dell’ex di pochi giorni fa ha saputo assorbire in ogni dettaglio. “Cleveland è il posto ideale per un coach come Kenny, e lui vi ha già dato il suo tocco”, riconosce il suo maestro ai Warriors. “Mi ricorda me stesso quando arrivai a Golden State”. Ecco. Visto che Atkinson annovera pure una remota parentesi a Napoli, da playmaker, avrà ben imparato che a questo punto vanno fatti gli scongiuri. Come si dirà tiè in inglese?
Il Foglio sportivo - In corpore sano