Foto LaPresse

Il Foglio sportivo

Perché a Roma è sparito il basket

Marco Cherubini

Da troppi anni non c’è una squadra in A1. I pochi campioni, vista l’assenza dei grandi club, hanno preferito emigrare. Nei settori giovanili c'è una spiccata competizione, ma mancano dirigenti capaci di dar vita a un progetto solido 

Per chi a Roma vive la passione del pallone a spicchi, andrebbe preso in prestito il murales di un tifoso del Boca Juniors quando El Mudo Roman Riquelme diede l’addio al calcio: “Abrazame Hasta Que Vuelva Roman” (Abbracciami finché non torna Roman) lo struggente desiderio per un idolo che non avrebbe più fatto felice un popolo. Perché solo la condivisione di una sofferenza potrebbe rendere più sopportabile il declino della pallacanestro nella Capitale. Undici anni e mezzo fa la Virtus del presidente Toti provava a strappare lo scudetto alla potenza di Siena. Senza riuscirci. Ma nella delusione di quella finale playoff persa amaramente per 4 a 1, nessuno poteva immaginare il fragoroso crollo non solo dei sogni di gloria, ma anche e soprattutto di un movimento di vertice, evaporato a tempo di record. A mente fredda, la scelta di giocare quella finale storica nell’angusto Palazzetto, senza aprire i cancelli del vecchio Palazzo dell’Eur, fu un errore. Roma vive di passioni improvvise che passano come il Ponentino. Tenerle vive, solide, è affare molto complicato. Forse – lo credono in molti sotto i canestri della città che possiede una grande tradizione cestistica – presentare 15mila spettatori per le gare scudetto avrebbe fatto capire a sponsor e imprenditori che quella del basket a Roma era – ed è – una partita che si può vincere. Invece, in un lampo, tutto è svanito. 

 

E da quella tarda primavera del 2013 non solo non si è più lottato per il vertice, ma solo sette anni dopo la Virtus si è ritirata dopo l’illusione di una cordata americana – corsi e ricorsi storici – che illuse Claudio Toti prima del getto della spugna. Il recupero della franchigia – Virtus Roma 1960 – ha costretto Maurizio Zoffoli – imprenditore nel campo della telefonia – a ripartire dalla C e navigare, sia pure con passione e sacrificio, nelle serie minori, come l’attuale B. Dove “palleggia” anche l’altra squadra della città, la Luiss Basket, voluta fortemente da Luigi Abete, ex presidente della Confindustria, fratello del Giancarlo attuale capo della Lega Dilettanti di calcio e capo del pallone italiano per 7 anni. A lui avremmo voluto chiedere il perché di questo sfarinamento cestistico nella città eterna, ma con cortesia ha declinato l’invito. 

 

E allora non resta che analizzare nel dettaglio le ragioni di questa crisi che ha due facce ben distinte. La prima riguarda la base. A Roma i ragazzini – da sempre attratti dal pallone – hanno spesso avuto anche un debole per i canestri. Tante le società – anche storiche, prima tra le tante la Stella Azzurra – che hanno accompagnato generazioni di giovani innamorati della pallacanestro, creando fin dagli anni Sessanta, un tessuto importante, sul quale, imprenditori illuminati e dirigenti capaci, hanno saputo creare realtà di vertice. C’era un tempo che al Palazzetto e al Palazzo erano tre le squadre che catalizzavano l’attenzione degli appassionati. Tuttavia, dopo i picchi dell’Ibp di Bianchini, poi Banco Roma e della già citata Virtus, questo enorme bacino (stiamo parlando di migliaia di ragazzi) è rimasto sommerso. I pochi campioni, vista l’assenza dei grandi club, dei punti di riferimento, hanno preferito emigrare. E qui s’innesca l’altro aspetto che aiuta a spiegare questa involuzione cestistica in città. Una spiccata competizione tra le varie anime del basket giovanile (molti tecnici ci hanno detto la loro, ma hanno preferito restare anonimi) e l’assenza di dirigenti capaci di coagulare tutto questo mare magnum fatto di ragazzini e giovani tecnici, in un progetto solido, organizzato, strategico.

 

Se si aggiunge la strategia vincente che la pallavolo – sia maschile che femminile – ha messo in atto all’interno del Grande Raccordo Anulare, si riesce a comprendere meglio come i reclutamenti nelle scuole, in assenza di programmi chiari che comprendessero anche la cronica assenza di impianti, hanno visto perdente la scelta del basket. E del resto, senza un polo attrattivo – tipo lo storico campo sulla Via Salaria, nel vecchio impianto che fu del Banco Roma – la passione per la pallacanestro a Roma è diventato un fiume carsico. Che resiste grazie a generosi irriducibili, ma che non trova sbocco in quello che dovrebbe essere un piano solido e strutturato per fare risorgere questo sport nella Capitale. Una operazione che farebbe molto bene anche a tutto il movimento e che invece, anche a livello federale e di Lega, non raccoglie consensi e, dunque, proposte innovative. Ed allora verrebbe da scrivere sul muro del vecchio Palaeur: Abbracciami finché non torna il grande basket in città.

Di più su questi argomenti: