(foto EPA)

Il foglio sportivo

Un artista di nome Ilie Nastase. Intervista all'ex campione rumeno

Maurizio Bertera

“Noi bad boys eravamo amici e abbiamo cambiato il tennis” dice il primo numero uno nella storia del ranking Atp, le cui gesta sono diventate un docufilm: “Nasty”
 

Un viaggio nel tempo, avanti e indietro, alla ricerca dell’uomo, del campione, del playboy, del clown, ma soprattutto del tennista sopraffino, l’artista di nome Ilie Nastase. Questo è “Nasty”, il film documentario nelle sale italiane il 18, 19 e 20 novembre. 

Mr. Nastase, se l’aspettava un giorno di diventare protagonista di un film?

“No, non pensavo. Questi ragazzi ci hanno messo quattro anni di lavoro: non era facile trovare le immagini di tutte le cose che facevo sul campo. E le hanno anche pagate care: a Wimbledon ci hanno chiesto 25.000 sterline per un minuto di immagini. Ma adesso finalmente il film c’è”. 

Partiamo dall’inizio: cos’è stato per il bambino Ilie abbracciare il tennis in quella Romania?

“Ho avuto una fortuna particolare perché lo Stato affidò alla mia famiglia una casa nell’area del circolo di tennis Progresul, un po’ come è capitato ad Adriano (Panatta ndr), il cui padre lavorava proprio in un circolo del tennis. Mio fratello giocava e avevo le racchette sparse per casa. Per tornare a casa dovevo passare in mezzo ai campi da tennis. È uno sport che mi è piaciuto dal primo giorno che ho preso in mano la racchetta.  Avevo quattro-cinque anni, ci mettevamo sul campo e palleggiavamo contro il muro. Il migliore allenamento per un bambino, anche oggi”. 

A un certo punto arriva il tennis professionistico, e lei comincia a girare per il mondo. Cos’ha trovato lì fuori?

Forse un po’ la libertà. Noi della carovana del tennis eravamo tutti amici. Si parlava italiano quando eravamo in Italia, francese quando eravamo in Francia, e così in Spagna, in Inghilterra. Non c’erano molti soldi in giro. Se un finalista prendeva 4.000 dollari, il vincitore di un torneo ne prendeva 5.000. Ci si allenava insieme, condividevamo persino lo spogliatoio. E dopo la partita, anche se avevi perso, dopo dieci minuti passava tutto e si andava a cena insieme. Non so se oggi c’è ancora un gruppo di amici così fra i tennisti”.

Nel film viene fuori l’immagine di un tennis veramente diverso, molto più umano.

“Anche le regole erano poche e semplici. Potevi anche dire qualcosa all’arbitro, magari una parolaccia. Si pagava la multa ma finiva lì. Io ne ho pagate molte, ma potevano essere anche di più. Oggi se guardi l’arbitro, lui ti butta fuori”. 

Il suo modo di vivere il tennis e di giocarlo è sempre stato associato alla parola “artista”. Si riconosce in questa visione o sotto sotto era più calcolatore di quello che sembrava?

“No, non ero calcolatore, perché se lo fossi stato non avrei combinato tutto quel che ho fatto sul campo. Ma a proposito dell’‘artista’: i francesi non mi amavano, non so perché. In Italia mi sentivo a casa, ma a Parigi no. Un giorno al Roland Garros qualcuno mi gridò: ‘Nastase, tu fait du cinema!’. E io gli risposi: ‘Stupido, è teatro!’”.

Qual era l’avversario più forte o fastidioso da battere?

“Mah, c’erano molti campioni, almeno dieci, non due o tre come adesso. Ma sulla terra battuta mi sentivo più forte degli altri. Però Stan Smith era fortissimo, e poi Panatta, Vilas, Borg. Ma erano tutti campioni”.

Nel film Jimmy Connors, riferendosi a lei come compagno di doppio, dice “eravamo una coppia di banditi e ci piaceva”. Connors, Nastase, e più tardi McEnroe... un gruppo di bad boys figlio di quegli anni Settanta.

“Era differente, le regole erano molto stringenti, si giocava ancora in completo bianco, noi abbiamo cambiato le cose. Abbiamo pagato un po’, ma ne valeva la pena”. 

 Non si può parlare di Ilie Nastase senza parlare di Ion Tiriac. 

“Tiriac è stato sempre un personaggio difficile per me perché voleva che non facessi le cose che facevo sul campo, le proteste, gli scherzi. Si arrabbiava molto quando giocavamo insieme perché lui voleva vincere il doppio, perché in singolo non aveva molte possibilità. Mi ricordo una finale del torneo di Madrid, contro di lui. Mi disse: ‘Nasty, stai attento, perché se mi fai 6-0 6-1 non entri nello spogliatoio’. Entriamo sul campo, 1-0, 2-0, 5-0... lui era lì, tutto ingrugnito su se stesso. Alla fine vinsi 6-1 6-2. Nello spogliatoio gli dissi: ‘Mi hai detto di non batterti 6-0, 6-1, oggi è il tuo compleanno, ti ho battuto 6-1 6-2’. E lui mi rispose: ‘Non devi mai regalare un punto. Nemmeno a tuo padre e a tuo fratello’. Fu davvero una lezione”.

Nel 1974 La Coppa Davis era a un passo: finale in casa contro gli Stati Uniti.

“Accadde che io arrivai troppo tardi. Stavo giocando a Forest Hills la finale con Ashe, e dopo dovevo fare Seattle. Perdemmo e io giocai male nel doppio. Tiriac si arrabbiò molto. Ma io gli risposi: ‘Se non ci fossi stato io in finale non ci arrivavamo nemmeno’”.

Qual era l’atmosfera a Bucarest in quei giorni? È vero che eravate osservati anche dai servizi segreti?

“Era difficile, c’era molta pressione. Avevamo fatto tre finali in America ed eravamo anche andati vicini alla vittoria. Però gli americani avevano così tanti giocatori forti da mettere in piedi almeno tre squadre. Tra l’altro il sistema era quello del challenge, con i vincitori dell’anno prima, lì ad aspettare”. 

Nel film si dice “forse il tennis di allora non era pronto per Nastase”. Però forse non sarebbe pronto neanche oggi perché si è troppo “meccanizzato”. Lei è un giocatore fuori dal tempo?

“Sì è vero. E considerate anche che giocavamo con le racchette di legno. Fare quelle partite con le racchette di legno era incredibile. Mi ricordo che facevo accordature molto morbide, 16 chili. Adesso giocano con racchette accordate a 33 chili”.

In questi ultimi anni in Italia c’è una nuova fioritura di talenti: per la prima volta abbiamo il numero uno del mondo, Jannik Sinner. E poi una squadra che ha rivinto la Coppa Davis. Le piace Sinner?

“Mi piace, fisicamente sta bene, si muove bene, ed è quello che serve oggi: servire bene e muoversi. E poi ha una cosa che altri non hanno: l’intuizione. Lui capisce prima le cose. Qualche giorno fa in tv l’ho visto protagonista di uno scambio da cinquanta colpi. Una cosa incredibile, ai miei tempi impensabile”.

Adesso c’è un film che racconta la sua storia. Lei ama il cinema? Quali sono i suoi attori preferiti?

“Sì, al cinema ci andavo sin da bambino. Amavo Jean Paul Belmondo e Alain Delon. Venivano sempre al Roland Garros. Specialmente Belmondo. Un giorno durante un match la palla arrivò vicino al suo palco. Lui era con la sua ragazza, si chiamava Natie. Io sono andato lì a prendere la palla e vicino alla palla c’era un cane. Così invece di prendere la palla ho preso il cane e l’ho attaccato alla sedia dell’arbitro. E lui: ‘Dammi il cane’, e io: ‘No, prima facciamo un po’ di casino...’”

Cani, quindi, ma anche gatti (uno nero buttato in campo davanti al superstizioso Panatta) e topi (nella borsa delle racchette di Ashe). E poi spettatori e giudici mandati a quel paese e una partita giocata con un ombrello in mano: c'è qualcosa di quello che ha fatto che non rifarebbe?

“No. E non è un caso se nel film ho scelto di inserire My way di Sinatra: perché nella vita e sul campo ho fatto davvero tutto come ho voluto io”.

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