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Cambio in panchina

L'inno alla disciplina di Patrick Vieira e la difficile convivenza con Balotelli

Furio Zara

L'ex calciatore di Juventus, Inter e Manchester City è il nuovo allenatore del Genoa e ritrova SuperMario. Ai tempi del Nizza, il tecnico aveva commentato: "La sua mentalità non si addice a uno sport collettivo come il calcio" 

Nell’inverno del loro scontento, era il 2018, Patrick Vieira rispondendo a Mario Balotelli che se l’era presa (eufemismo) per una sostituzione che riteneva ingiustificabile, disse che “la sua mentalità non si addice ad uno sport collettivo come il calcio. Mario ha un ego forte ma non lo mette al servizio degli altri”. Erano entrambi a Nizza, mica tanto appassionatamente. Pochi mesi dopo SuperMario fece le valigie. Di recente ha ricordato: “Non sarei mai andato via da Nizza se non fosse stato per lui”. Allegria. Con “lui” adesso dovrà trovare il modo di andare d’accordo. Patrick Vieira è infatti il nuovo allenatore del Genoa. Lo è a sorpresa, dopo la decisione del fondo americano che governa il club - oggi quartultimo un punto sopra la zona retrocessione - di esonerare Gilardino. Strascichi antichi, quelli tra i due.

 

Premesse fragili, in attesa della prima foto dove si stringono la mano e promettono unione di intenti nel segno del Grifone: anche ai tempi dell’Inter e poi del Manchester City erano state scintille, incomprensioni, sguardi in tralice. Vieira mal sopportava le balotellate del compagno di squadra. Questione di attitudine, di posa da tenere. Il percorso professionale del 48enne francese è un inno alla disciplina. E’ stato, senza ombra di dubbio, uno dei migliori centrocampisti della sua generazione, di quelli capaci - come si dice - di fare reparto da solo o comunque di governare la giungla con personalità. Straordinaria la carriera dell’uomo che da bimbo, aveva otto anni, lasciò il Senegal dov’era nato (a Dakar) per migrare con la famiglia in Francia: Cannes a fare da piedistallo, la toccata e fuga al Milan (aveva vent’anni, era acerbo), l’epopea con l’Arsenal (nove anni dal 1996 al 2005), lo scudetto (revocato) con la Juventus pre-Calciopoli, il quadriennio all’Inter, quindi il City. Nel mezzo trofei ovunque, un Mondiale vinto con la Francia (1998, in casa) e uno perso contro l’Italia (2006), ma anche un Europeo in bacheca (2000, sempre contro gli azzurri) a impreziosire le 107 presenze in nazionale. Vieira ha avuto grandi maestri, tra gli altri, per una sola stagione, Capello e Guardiola, ma più di tutti è stato il francese Arsene Wenger a forgiarne il carattere e dargli un posto nel mondo del pallone. Fu Wenger a volerlo a Londra, quando Patrick aveva già trovato l’accordo con l’Ajax. Wenger ne riconosceva soprattutto l’autorevolezza in campo.

 

Vieira era un frangiflutti davanti alla difesa. A sbattergli addosso si finiva male, così qualcuno la buttava sulla provocazione razzista, come fece Sinisa Mihajlovic in una notte di Champions tra Lazio e Arsenal. Ha raccontato Vieira: “Cominciò a offendermi già nel sottopassaggio. In campo i compagni si scusavano con me, erano imbarazzati anche loro”. Poi i due si sono incontrati e chiariti. Dopo una decina d’anni in panchina profilo del Vieira calciatore non è ancora stato raggiunto dal Vieira allenatore. La gavetta nelle giovanili del City, due anni di apprendistato e senza squilli a New York, due anni e due mesi a Nizza, 7° e 5° posto prima dell’esonero, un 12° posto e una stagione interrotta (altro esonero) in Premier League con il Crystal Palace, infine un campionato mediocre a Strasburgo, l’anno scorso. Si può fare di più, ma Vieira non l’ha ancora fatto. L’idea di calcio che porta in dote - la difesa a quattro, il palleggio come soluzione primaria - viene apprezzata assai dai suoi colleghi, ma finora i risultati non rispondono alle aspettative. Il Genoa e la Serie A ritrovata costituiscono per Vieira l’ultima buona occasione per accendere una carriera che fin qui si è consumata in un fuoco lento di svariate promesse, quasi mai mantenute.