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giù il sipario, applausi

Si chiude l'èra di Rafa Nadal. Oltre mille vittorie e una promessa: resistere. Fino all'ultimo colpo a Malaga

Giorgia Mecca

Ha concluso la sua carriera con una sconfitta, brutta e pesante. Era la fine che si meritava? Un risultato diverso sarebbe stato una favola, ma lo spagnolo è sempre stato il contrario, realtà nuda e cruda, e nella realtà c’è da aspettarsi un’uscita di scena da sconfitto

La prima volta eravamo forse un po’ distratti. Tennis di primavera, terra rossa con vista sul mare, un nome spagnolo, spagnolo come tanti. Chissà quanti ne avevano visti passare Gianni Clerici e Rino Tommasi, quel “vamos” come intercalare, correre, correre e ancora correre, “red clay y poco mas”. Il 14 aprile del 2003 Rafael Nadal portava i capelli a caschetto come i bambini il giorno della prima comunione, un viso da fanciullo non ancora travolto e stravolto da decenni di “trabajo”, sudore e dolore. Quel giorno sconfisse Karol Kucera in due set, qualcuno gli chiese un autografo, lui fuori dal campo non sapeva come muoversi. Dodici mesi dopo la presa del regno, Rafael nel frattempo è diventato Rafa e come nelle monarchie il cognome è diventato superfluo. Vent’anni di carriera, 92 titoli, 22 Slam, 14 Roland Garros, la Davis e le Olimpiadi, una statua e un campo, un logo, uno stile, un’epoca. 2004, 2005, 2006, eccetera, eccetera. 

 

Dire addio al Rafa tennista significa interrogare la nostra memoria, dove eravamo e con chi. In un giorno qualunque di maggio accendevi il televisore e Rafa era lì, i pomeriggi di quasi estate, lui sporco di terra, con le braccia nude e asimmetriche, pantaloncini che avrebbero fatto rabbrividire gli antichi, sudore perenne, cerotti in tutte le dita delle mani. In quel momento il tennis si era preso una cotta (in realtà era vero amore) per Roger Federer: etereo, elegante, sublime. Nadal era l’opposto. L’avevano soprannominato cavernicolo. Quelle urla nel regno del “silence please”, tutta quella polvere rossa in uno sport immacolato, e poi il simbolo che gli aveva assegnato il suo sponsor, le corna di un toro, come se il tennis si fosse trasformato nella corrida. Il Centrale in un’arena. Vince il più forte? No, vince il più ostinato. 

 

Così si gioca in paradiso, diceva Tommasi a proposito dello svizzero, tra un circoletto rosso e l’altro. Nadal molto più prosaicamente ti accompagnava all’inferno. Da una parte la leggerezza dell’aria, dall’altra i macigni. Sorrisi? Dal lato maiorchino pochi, a conferma del fatto che il tennis, se è divertente è divertente solo per chi lo guarda. Eppure 20 anni e 1.308 partite. 

 

Eppure un nodo in gola, un addio trascinato, annunciato e poi smentito, l’illusione piena di tenerezza che non fosse finita nemmeno da numero 300 al mondo, lui che di quel mondo era stato il primo, quando al Foro Italico, nei luoghi in cui era stato gladiatore, ha scoperto di essere, come avrebbero detto gli antichi, soltanto l’ombra di un grande nome ormai. E però quell’ombra è stata grande davvero. Nelle cadute e nei come back, nella disposizione maniacale delle bottigliette durante i match, sempre con la stessa concentrazione sia che l’avversario fosse il numero 1 sia che fosse il  numero 400. Lo hanno preso molto in giro per questo, per il suo modo di prepararsi a servire, a lui non piaceva ridere dei propri tic, aveva ragione. Non era solo un rito scaramantico, significava meritarsi ogni giorno e anche nelle sciocchezze il fatto di essere una leggenda. 

 

Un giorno chiesero a Ivan Lendl come mai non rideva mai. Rispose: “Cosa c’è da ridere?”. Niente, infatti. Il tennis il più delle volte è monotono, far passare la pallina oltre la rete una volta in più rispetto al tuo avversario. Federer ogni tanto si concedeva qualche variazione sul tema, divagava, aggiungeva i fronzoli. Non che Nadal non ne fosse capace. Miami 2005, prima finale tra i due, vince lo svizzero, testa di serie numero 1 del torneo, in rimonta al quinto set. Lo spagnolo va da suo zio, lo zio Toni, e gli chiede semplicemente perché. “Non vincerai mai contro di lui se ti ostinerai a giocare di tocco. Tu devi stare lì, fino all’ultimo punto”.

 

Il tennis in casa Nadal non ha mai avuto troppo a che fare con la poesia o con i concetti astratti che piacevano tanto a David Foster Wallace, era più che altro un prendere l’avversario per sfinimento. Era resistenza, mantenere la promessa fatta allo zio, quella di rimanere lì, o almeno provarci. A proposito di poesie, si parla sempre tanto di quella di Kipling che invita a trattare vittoria e sconfitta nello stesso modo. Ecco, l’impressione è che lo spagnolo avrebbe preferito farsi cavare gli occhi pur di perdere un punto, figuriamoci un match. Due decenni di gloria e di massacri. Vittorie? Più di mille, tutte a caro prezzo. Cartilagini non più esistenti, ginocchia a pezzi, una schiena che non guarirà mai più, e più la spalla costretta a ripetere centinaia di migliaia di volte lo stesso movimento innaturale, la racchetta stretta come se in fondo volesse farsi male. Quanti chilometri? Troppi. 

 

Eppure quel maledetto nodo in gola, mille ripensamenti e un sipario che non vuole calare ma che non riesce a stare su, il terrore di leggere la parola ex davanti alla tua vita precedente, a ciò che sei sempre stato, a ciò che hai lottato per essere. Rafael Nadal ha concluso la sua carriera con una sconfitta, brutta e pure pesante. Benito Barbadillo, storico manager dell’ex numero uno al mondo ha commentato su Instagram: “Che strano, per tutta la tua carriera hai quasi sempre vinto il primo e l’ultimo punto di ogni match che hai giocato. Nel tuo ultimo match hai perso entrambi”. Era la fine che si meritava? Un risultato diverso sarebbe stato una favola, ma lo spagnolo è sempre stato il contrario, realtà nuda e cruda, e nella realtà c’è da aspettarsi un’uscita di scena da sconfitto. Gli happy end non sono mai troppo interessanti. E poi in quell’estremo tentativo di sovvertire il pronostico, l’anagrafe e un corpo a pezzi, c’era tutto Rafa, il meglio di Rafa. Tutto è contro eppure tutto è possibile.  Ancora una volta. Anche se non è vero, è stato bello crederci.

 

Wimbledon 2008. Nadal si presenta a Londra dopo aver vinto per la quarta volta consecutiva il Roland Garros. I puristi lo applaudono e pensano che per fortuna uno così almeno sull’erba non avrebbe potuto vincere mai. La finale di quell’edizione a Church Road è forse una delle più belle della storia. Contro Federer finisce 9 a 7 al quinto set, Nadal in total white con gli stessi pantaloni improponibili di cui sopra, i bicipiti in mostra, le sue gambe che coprono ogni lato del campo. Tennis per sfinimento, forza d’inerzia e adrenalina. Tennis come se al mondo non esistesse nient’altro. Sedici anni dopo, del vecchio Rafa è rimasto poco, gli sportivi invecchiano peggio degli altri, lo spagnolo ne è la prova. Pure a Malaga, però, ha tirato fuori dal suo repertorio qualche perla, concedendoci l’estremo “best of”: le rincorse e le rimonte, quei salti in aria, i tic, la difesa a oltranza, il dritto a uncino, chilometri su chilometri, l’agonismo fatto uomo o quello che rimane. Del suo 2024 ricorderemo quattro sconfitte e quattro standing ovation: Madrid, Roma, Parigi e Malaga, il ko definitivo. Il tennis si è fermato ogni volta. E tutti coloro che si sono alzati in piedi a rendergli omaggio hanno dovuto ripensare ai pomeriggi di primavera, alla televisione accesa su Rafa, le voci di Clerici e Tommasi in sottofondo, Rafa che sotto quel sole non perde mai, Rafa che era giovane come noi.

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