Marco van Basten (foto LaPresse)

Champions League. Il Milan a Bratislava nel nome di Marco van Basten

Marco Gaetani

È da oltre trent'anni che i rossoneri non giocano contro lo Slovan. Quel giorno andò in scena una partita normale di un giocatore straordinario, che sarebbe stata una partita straordinaria se giocata da un giocatore normale

Quando si citano, con l’immancabile occhio lucido, le ultime tappe della carriera di Marco van Basten, i riferimenti sono quasi sempre gli stessi, in un ricorrente di rito di espiazione: i quattro gol al Napoli prima e al Goteborg poi, il Pallone d’Oro 1992 ritirato e sollevato in uno shooting dal sapore triste con tanto di cravatta in tinta nell’immediata vigilia dell’operazione chirurgica alla caviglia, il beffardo ritorno al gol in un pomeriggio di Ancona dopo uno stop già più lungo del previsto, l’apparizione da controfigura nella notte di Monaco di Baviera, finale di Champions League vinta dal Marsiglia con il gol di Basile Boli.

 

Una delle ultime recite dell’olandese rimane sotto traccia, è una performance minore ma non per questo meno degna di nota e di ricordo. Ritorna alla luce oggi che il Milan, per la prima volta, si ritrova a giocare a Bratislava in Champions League a 32 anni di distanza dall’ultima volta: era il 21 ottobre del 1992, andata degli ottavi di finale, partita dal pronostico teoricamente chiusissimo. Il format di quella edizione prevedeva due turni a eliminazione diretta prima del girone che conduceva alla finalissima: superata l’Olimpia Lubiana, il Diavolo di Fabio Capello si era trovato davanti lo Slovan, avversario tutt’altro che insormontabile. Era anche uno degli ultimi atti della Cecoslovacchia in quanto tale: il premier ceco Klaus e l’omologo slovacco Meciar avevano già da qualche settimana trovato l’accordo per la dissoluzione pacifica della federazione, che sarebbe stata resa definitiva il 31 dicembre 1992, rimanendo nella storia con la formidabile definizione di “divorzio di velluto”.

 

Ma in una notte di pioggia sottile, gocce affilate come spilli in caduta incessante, il Milan si era riscoperto improvvisamente vulnerabile dopo aver dominato il primo tempo: van Basten, leggero nelle movenze come da tradizione, aveva bombardato la porta di Vencel da ogni posizione, trovando però sempre la risposta attenta del portiere dello Slovan, aggirandosi per il campo con il suo fare regale, un po’ numero nove, un po’ numero dieci. L’espulsione improvvisa di Albertini aveva portato Capello a ridisegnare i suoi, lasciando il Cigno di Utrecht a combattere da solo con i difensori centrali avversari. Con un numero da prestigiatore, il tecnico aveva infatti scelto di rimpiazzare Jean-Pierre Papin con il ben più operaio Gambaro, mossa che letta oggi sembra una bestemmia in chiesa: eppure, proprio da un cross del terzino, era arrivata la sponda sublime di van Basten di testa per l’inserimento decisivo di Maldini. Un gol che era valso la dodicesima vittoria rossonera in altrettante partite giocate dall’inizio della stagione, uno dei mattoncini messi nella strada verso la finale: a Monaco, il Milan sarebbe arrivato dopo dieci vittorie su dieci e un solo gol subito, quello di Romario ad Eindhoven, prima del tracollo al cospetto del Marsiglia in una notte che tanto ha fatto parlare negli anni a venire per i motivi più disparati, dallo scandalo VA-OM che avrebbe spazzato via l’era di Bernard Tapie ai sospetti di doping. Di van Basten a Bratislava, invece, non si è quasi mai parlato. Una partita normale di un giocatore straordinario, che sarebbe stata una partita straordinaria se giocata da un giocatore normale. Ma di normale, in van Basten, non c’era davvero nulla.

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