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Niccolò Campriani, l'italiano che sta trasformando Los Angeles

Paola Arrigoni

Dagli ori olimpici alla gestione dei Giochi ‘28: “Qui tutto è show, ma la gente vive di sport”. Intervista al campione del tiro a segno, primo italiano a vincere un titolo mondiale individuale 

Tutto nasce con una candidatura: direttore sport dei Giochi olimpici e paralimpici do Los Angeles 2028. Un ruolo che era sempre stato affidato a una persona del paese ospitante. Anche in questo, Niccolò Campriani segna la storia. Primo italiano a vincere un titolo mondiale individuale nel tiro a segno nel 2010, a cui seguono tre medaglie d’oro e un argento alle Olimpiadi di Londra e Rio. Gli studi di ingegneria tra West Virginia e Inghilterra. Il ritiro, a soli 28 anni e il “valutare opportunità e cose belle”, come lavorare con il team dei rifugiati. Dal 2017 al 2021 è al Cio di Losanna. Ora LA28, i Giochi “tra sport e storytelling” del migliore tiratore di sempre.

Come ha iniziato a fare sport?
“La mia presenza nell’universo sportivo è abbastanza curiosa. Da piccolo non sognavo le Olimpiadi, mi incuriosivano la matematica e la fisica”.

Poi è arrivato il tiro a segno.
“Tra i tanti sport che ho provato era quello che si sposava meglio con le mie caratteristiche. È una disciplina che richiede una certa introspettività e auto-sfida. Gareggi più che altro con te stesso e il bersaglio”.

Quando ha iniziato?
“Avevo 13 anni, iniziai in un piccolissimo poligono di tiro a segno a Bibbiena, nel Casentino. Tiravo ad aria compressa, una specialità che rimane disciplina olimpica. Una cosa tira l’altra e, forse perché predisposto come personalità, iniziai ad avere successo”.

Cosa le piaceva?
“Era un bel modo per sfidare me stesso e girare il mondo, che è una delle parti più affascinanti dello sport ad alto livello. A 16 anni ho avuto la fortuna di viaggiare e fare esperienze di vita particolari, da cui è nata la possibilità di studiare negli Stati Uniti”.

Cos’hanno significato le Olimpiadi?
“Ciò che porto dietro è un modo di vivere la carriera da atleta. L’Olimpiade non mi è mai piaciuta per il carico emotivo di quelle due settimane. Era lo stimolo, quasi un pretesto. La parte importante era il percorso di crescita e il lavoro su me stesso dei quattro anni precedenti”.

A livello sportivo?
“Non solo. Essendo uno sport mentale, la figura dello psicologo sportivo è fondamentale e ringrazio il tiro a segno per avermi fatto scoprire la terapia. È stato un percorso determinante di chi sono e di un’autoconsapevolezza e un quoziente intellettivo-emotivo di chi mi sta intorno”.

Ricorda qualche episodio?
“In West Virginia ho incontrato Edward Etzel, professore di psicologia dello sport, che aveva anche vinto nel tiro a segno nel 1984. Ha avuto un impatto decisivo, anche dopo il ritiro, quando le difficoltà non erano più legate alle performance sportive, ma a un senso di identità”.

Si è ritirato dopo Rio, all’apice della carriera.
“Sapevo di volermi ritirare prima di Rio. L’Olimpiade va particolarmente bene, in maniera inaspettata rispetto a Londra. A quel punto era più un resistere alla tentazione di andare avanti. È stata forse una delle scelte più difficili, ma più giuste della mia vita”.

Ora è direttore sport di LA2028.
“Pensavo di prendere una pausa dal movimento olimpico dopo gli anni al Cio. Avevo già conosciuto il team di LA28 e mi piaceva molto lo stile e il mindset. È stata più una scelta basata su chi avrei voluto al mio fianco rispetto al cosa”.

Cosa l’ha colpita?
“Tanti aspetti, tra cui la sfida di avere solo fondi privati e la dimensione di business. Può essere visto in negativo, ma mi piace pensare che sia un modo per salvaguardare i Giochi e renderli autosufficienti, e non partire dall’idea che anche se si sfora ci sono altri altri modi per portarli a termine”.

Cosa le è rimasto di Parigi?
“L’approccio di sfruttare i punti di forza, la cultura e la mentalità della città ospitante. Parigi è tra le città più belle al mondo, utilizzare posti come la Tour Eiffel per dare risalto allo sport è stato importante”.

Come verrà applicato?
“Abbiamo alcuni tra gli impianti più moderni al mondo come il SoFI Stadium. C’è poi un discorso di sport presentation e cultura dell’entertainment dello sport americano: la partita di football non è solo una partita, ma tutto ciò che sta intorno”.

Cosa ci dobbiamo aspettare?
“Tornano le Olimpiadi negli Stati Uniti dopo tanti anni ed è la terza edizione a Los Angeles dopo quelle del 1932 e del 1984, ma soprattutto sarà la prima Paralimpiade “californiana”. È la città dell’intrattenimento per eccellenza e ha tanto da offrire. Dal punto di vista sportivo c'è una sensibilità unica: la gente vive e respira di sport”.

Qual è l’identità di Los Angeles?
“Tante, in particolare due: Los Angeles è una città che vive di sport, ed è la capitale dello storytelling mondiale. Sarà affascinante vedere il risultato di questo connubio. Assorbire e raccontare le storie sportive fa parte del dna e della cultura losangelina”.

Il Cio permette ai comitati organizzatori di proporre alcuni sport. Come sono stati scelti?
“Da una parte l’idea di fare uno showcase di sport americani come flag football (la versione senza contatto del football americano), lacrosse, baseball e softball. Dall’altra introdurre uno sport globale nel mercato americano: il cricket. Siamo stati i primi a proporre anche uno sport paralimpico, l’arrampicata sportiva paralimpica”.

Come verrà gestita l’ampiezza di Los Angeles?
“L’idea è avere venue nel raggio di un’ora dal Villaggio Olimpico per far sì che gli atleti e le atlete vivano l’Olimpiade a 360 gradi. Allo stesso tempo valutare una distribuzione intelligente di cluster, sport park, non solo sulla città, ma sull’area intorno, fino a Long Beach”.

Per quanto riguarda le strutture?
“Utilizzeremo quelle che ci sono già, Los Angeles è fortunata da questo punto di vista. Alcune discipline verranno organizzate attraverso strutture temporanee. Questo abbassa i costi, ma c’è una riflessione intorno alla complessità, significa adattare tutto nei mesi precedenti ai Giochi”.

Ha un ricordo sportivo particolare?
“Una delle esperienze più belle è stata lavorare con il team dei rifugiati. L’occasione si è presentata dopo il ritiro ed è stato forse il modo più sano per affrontarlo e ricordare a ogni atleta che le cose belle sono lì fuori, anche dopo un percorso intenso come la carriera sportiva”.

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