Cesc Fàbregas ed Eusebio Di Francesco nella bufera dello stadio Penzo di Venezia (foto LaPresse) 

la nota stonata #15

A Venezia si è capito che il calcio non non fa più caso né agli atleti né al pubblico

Enrico Veronese

Vento, freddo, pioggia hanno penalizzato i giocatori al Penzo. E pure in tv si capiva ben poco di quanto stava accadendo in Venezia-Como. Intanto l'Atalanta ha raggiunto il primo posto in classifica

Se questo è calcio. Si saranno detti, spettatori e spettatrici dello stadio Pier Luigi Penzo di Venezia, sferzati da un vento di bora epocale, con annessa pioggia fredda incessante: e non parlavano solo della propria scelta di recarsi all’impianto, quanto – se non soprattutto – della praticabilità di un incontro che, nonostante la provvida ed efficace tenuta del terreno di gioco, ben poco aveva dei crismi essenziali alle partite di pallone. Ovvero divertimento, benessere, sfida tattica, pregiati colpi dei singoli: i bollettini medici parleranno delle eventuali influenze e malanni di stagione connessi alle due ore trascorse nell’isola non napoleonica di Sant’Elena, sta di fatto che nemmeno in tv ci si capiva qualcosa, tra esagoni di gocce incollate alle telecamere e macchie di colori inediti strisciate sotto porta a palla lontana. Non è calcio rinviarsela addosso, non lo è la bandierina del corner piegata a terra, la congestione di portieri mummificati a palla lontana. La soluzione sarebbe forse una cattedrale nel deserto, nella terra di nessuno, specie se la casa si chiama laguna? In Italia non si riesce a progettare una versione evoluta e stabile del Pontiac Silverdome? Allora rinviare al primo mercoledì utile, tra due squadre senza le coppe, non dovrebbe mai essere un problema: il calcio è per gli atleti, e per il pubblico.

   


Questa è "La nota stonata", la rubrica di Enrico Veronese sul fine settimana della Serie A, che racconta ciò che rompe e turba la narrazione del bello del nostro campionato che è sempre più distante da essere il più bello del mondo


        

A proposito di platea, il coro “vinceremo il tricolor” cantato forse per la prima volta dagli spalti di Bergamo è il mercurio nel termometro delle attese generate dall’Atalanta, proprio come “L’anno che verrà” di Lucio Dalla risuonava dodici mesi orsono per celebrare le convincenti vittorie in sequenza del Bologna. Cosa è successo da allora? Thiago Motta è andato a letto presto, altrove, e per novanta minuti i rossoblu di Vincenzo Italiano sembravano proprio la squadra che si è costruita da sé la qualificazione in Champions League: armoniosa, geometricamente componibile, implacabile nel pressing e velenosa nelle frecciate delle sue punte. Chi si diletta con i meme del tipo “Vincenzo Iraniano” dovrà riconoscere che non c’era altro modo di dominare in casa d’altri, specie se questi ultimi si chiamano Juventus: una squadra arruffata che pace non ha, e gli infortuni in serie – soprattutto in difesa – non coprono a sufficienza lo spettro degli alibi, sebbene significhi mettere mano all’assetto e sfruttare di più il fertile settore giovanile. Dal derby è trascorso un mese senza vittorie, il margine dalla vetta si sta sgretolando e sempre più concorrenti si affollano a saturare gli spazi. Occorre tuttavia spezzare una lancia: nessuno obiettivamente immaginava che l’affidamento estivo all’allenatore italo-brasiliano potesse portare subito frutti succosi, anche se un mercato così corposo lasciava presagire di certo benefìci giochisti in misura maggiore. Ma il primo gol bianconero di Teun Koopmeiners, le volate di Francisco Conceiçao, il ritorno nell’organico di Dušan Vlahović e i colpi del “salvatore” Samuel Mbangula sono discrete basi per costruire una primavera differente. E non ci sarebbe certo da stupirsi se la società guidata da Exor dovesse tornare a dire la propria per qualcosa di più concreto che la qualificazione alla prossima Champions League.

   

Chi oggi si diletta in paragoni con il vituperato periodo di Massimiliano Allegri lo fa perché considera la massima inveterata, ovvero che il tecnico deve “fare meno danni possibile” – lo diceva Max, lo conferma Carlo Ancelotti – e che al massimo può determinare il 20 per cento delle fortune di una rosa, docet Fabio Capello. È invalsa la vulgata che difendere a 3 sia moderno, a 4 invece antico, quando sono proprio i Motta a inventarsi il modulo basculante a seconda delle discese ardite e delle risalite degli “esterni bassi”; pare anzi provvisoriamente tramontata la modalità, affermatasi con João Cancelo e Davide Calabria, che vedeva i terzini a quattro entrare nel campo, a differenza dei braccetti.

 

Si continua quindi a pensare calcio, e ciò è bene: ma è sufficiente tuttavia ascoltare le conferenze stampa, in specie anteriori al match, per ribadire la convinzione che chi parla male pensa male. Tutto un parlare di lavoro, “X continua a lavorare in allenamento”, “Y mi piace come sta lavorando”, rafforza l’idea malsana che giocare sia il premio, una sorta di caramella per chi fa più fatica, la fata del dentino redentrice di ogni cattolica sofferenza settimanale. Se la partita del weekend non è più il centro del calcio, ma un suo eventuale e a volte fastidioso epilogo, come sorprendersi se generazioni di ragazzini si fermano agli highlight e preferiscono altri giochi da protagonisti?

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