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Il Foglio sportivo

L'Atalanta bella e possibile è un esempio per tutti

Fulvio Paglialunga

La sconfitta con il Real Madrid spiega ancora meglio delle nove vittorie di fila il fenomeno creato da Antonio Percassi e Gian Piero Gasperini. La squadra non vince per caso: crea, costruisce, progetta, investe e rigenera anche giocatori come Charles De Ketelaere e Nicolò Zaniolo

La cosa più semplice sarebbe parlare della grandezza di questa Atalanta elencando le vittorie. Ma per capirla, meglio parlare di una sconfitta: quella di martedì in Champions. C’è una nuova grande nel continente. Per batterla, il Real Madrid ha dovuto mandare in gol tutta la migliore argenteria a disposizione: Mbappé, Bellingham, Vinicius jr. Se non avete voglia di estetica, ecco un po’ di numeri per dirla in modo inequivocabile: il Real, quindici volte campione d’Europa e campione uscente, per vincere contro l’Atalanta, alla sua quarta partecipazione nel torneo dei migliori d’Europa, ha dovuto far segnare tre giocatori che hanno un ingaggio lordo complessivo pari a quasi 73 milioni di euro, di 14 milioni superiore all’intero monte stipendi dei bergamaschi. Tre dal valore di mercato di 560 milioni (i dati sono di Transfermarkt), superiore di 110 milioni di euro rispetto a quello dell’intera rosa dell’Atalanta.

 

Ora che tutto è chiaro, sembra un’ottima idea far descrivere la credibilità europea della Dea da un Guardiola di novembre del 2019: “Giocare contro l’Atalanta è come andare dal dentista: sai che è durissima”. E una volta, anche, che il ruolo della banda di Gasperini è chiaro in Europa, conviene rivalersi sugli scettici, ricordare la troppa superbia di chi pensava che la Champions non la meritassero. La frase è questo, di marzo del 2020: “Ho grande rispetto per quello che sta facendo l’Atalanta, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla massima competizione europea per club. È giusto o no?”. La disse Andrea Agnelli, che all’epoca era presidente della Juventus e voleva dire che no, non era giusto. Che lo meritavano quelle più importanti, che il calcio di élite era per quelle che si erano autoproclamate meritevoli, non per chi emergeva: il brodo di coltura della Superlega mai nata. E invece, eccoci: con l’Europa League in bacheca dopo il trionfo dell’anno scorso, ora battere l’Atalanta costringe agli straordinari i migliori dei migliori d’Europa.

 

Poi c’è l’Italia: dove, classifica alla mano fino a questo momento, nessuno è meglio di loro. L’Atalanta è prima e nemmeno a questo punto ci è arrivata per caso: intanto ha vinto le ultime nove partite di fila, senza fare una piega, quasi in scioltezza, facendo sei gol al Verona ma anche tre al Napoli, battendo nell’ultimo sprint del campionato la Roma e il Milan, dando sempre l’impressione di avere il comando delle partite prima che del campionato, e le due cose però stanno diventando conseguenti. L’Atalanta non vince per caso: crea, costruisce, progetta, investe. Rigenera, anche: tra i principali protagonisti di questa cavalcata ci sono Charles De Ketelaere, che il Milan aveva accolto come stella del futuro (solo per sette giocatori aveva speso più di quanto speso per lui) e venduto come promessa mancata, e Mateo Retegui, capocannoniere del campionato in questo momento quando solo un anno fa, al Genoa, sembrava un abbaglio preso da Mancini, che lo aveva scovato come oriundo per rinforzare l’attacco della Nazionale. E se non dovesse essere questa la stagione di Scamacca (crociato rotto ad agosto, rientro previsto a febbraio) potrebbe ancora essere quella di Zaniolo, un altro che ha così tanta voglia di riprendersi la scena da non preoccuparsi dell’esultanza con tanto di maglia sventolata all’Olimpico, dopo aver segnato contro la Roma.

 

Forse questa è la fotografia migliore di tutte: l’Atalanta è sfacciata, irriverente, ha la faccia tosta di Zaniolo, la freschezza di De Ketelaere e la voglia di emergere di Retegui, sa di essere affascinante ma non perde tempo a specchiarsi perché deve mostrarsi agli altri, e batterli. Ha anche la sfrontatezza di Gasperini, che non le manda a dire a costo di attirarsi antipatie, tanto vince e ha ragione lui, che se ha fonti di bellezza le somma, non fa calcoli, fino a far diventare la sua squadra un piacere. Sa come risollevare giocatori affranti, valorizzare talenti e motivare tutti insieme: hanno raccontato, negli anni, di uno spogliatoio tappezzato di frasi motivazionali, citazioni, e forse c’è ancora la foto di un branco di lupi. Gasperini ha detto, raccontandosi al Guardian, di averla messa per la potenza della metafora: “Quelli davanti sono quelli che danno il ritmo. Quelli appena dietro sono quelli più forti, sono quelli che devono proteggere tutti se vengono attaccati. L’ultimo, invece, è il capo e si assicura che nessuno venga lasciato indietro. Tiene tutti uniti ed è sempre pronto a correre ovunque; per proteggere l’intero gruppo. Il messaggio è che un leader non sta solo davanti; si prende cura della squadra e questo è ciò che voglio dai miei giocatori”.

 

L’Atalanta è bella e possibile perché è anche un modello: investe nel settore giovanile, ingrandisce il suo centro sportivo, si è creata lo stadio di proprietà. E genera ricavi perché è virtuosa, ma anche perché vende calciatori pescati quasi dal nulla: Koopmeiners, comprato in Olanda per 14 milioni, è stato rivenduto alla Juve per 55 dopo tre anni, e il Manchester United ha pagato 74 milioni Højlund, che la Dea aveva comprato l’anno prima dallo Sturm Graz per 20. La Gazzetta ha setacciato i bilanci per arrivare a due cifre notevoli: la società chiude in attivo dal 2016 e ha accumulato un utile di 193 milioni (quasi tutti reinvestiti), e ora ha asset per 240 milioni, che nel 2010, quando Percassi acquistò la società (ora ne è proprietario al 45 per cento e gestisce tutto, ma la maggioranza è di una cordata statunitense guidata da Stephen Pagliuca), valevano 30. Funziona tutto, dovesse vincere non sarebbe un miracolo, ma un premio, la costruzione perfetta di un gioiello. Ma sa già di impresa essere lassù, senza nessuno davanti. È il sogno di Gasperini, in pratica, che alla Juve ha allenato solo le giovanili, all’Inter è stato per quattro giornate nei confusi anni dopo il triplete (per lasciarsi molto male) e alla fine ha pensato che meglio di allenare una grande squadra poteva essere costruirsene una tutta sua. Eccola.