Fanna, con la maglia dell'Inter, esulta dopo la sua rete nel derby d'Italia del 15 marzo 1987 (Wikipedia) 

Il foglio sportivo

Pierino Fanna e l'ultima favola

Antonello Sette

“Pane, burro e zucchero. Da Clodig allo scudetto con il Verona”. Intervista all'attaccante che ha giocato anche nella Juventus e nell'Inter

Sono nato a Clodig, frazione di Grimacco. Il paese intero non arrivava a trecento abitanti. Clodig ne contava a fatica cento. Oggi ne sono rimasti, occhio e croce, una decina”.  Pierino Fanna da Clodig, anche ora che ha messo in fila sessantasei primavere, di quell’infanzia trascorsa in un luogo dimenticato da Dio, fuori dal clamore del mondo, di cui sentiva parlare in televisione, ha conservato il ricordo di un incanto mai più così felice. Nonostante la gloria di cinque scudetti vinti con tre diverse squadre, fra cui quello, unico e inimitabile, con il Verona nel 1985.

 

“Ho tre nipotini, che amo più di ogni altra cosa al mondo e penso che ogni bambino dovrebbe vivere la stessa infanzia che ho vissuto io. Fra i monti, i fiumi, i boschi, la natura incontaminata. Per dodici anni è stato il mio paradiso, condiviso con i compagni d’asilo e delle elementari, perché per le medie bisognava scendere di sette chilometri verso Cividale del Friuli. Mio padre faceva il casaro nella latteria del paese. La mia colazione era pane, burro e marmellata o, più di frequente, burro e zucchero, come oggi non si usa più. Il destino, la passione, l’istinto mi hanno legato a una roba rotonda, chiamata pallone, che sarebbe stato il compagno di un viaggio che sembrava senza fine. A Clodig ci arrangiavamo nel cortile della scuola, che era l’unico luogo in piano. Per il resto, c’erano solo salite e discese. Uno scenario obliquo e scosceso, che mi ha insegnato a crescere nelle difficoltà, quali erano quelle di rincorrere un pallone in discesa o di spingerlo in salita. Quei saliscendi fra i boschi sono stati il mio primo allenatore”.

Un paradiso senza pianura è il luogo meno adatto per farsi notare. Qualcosa deve essere cambiato…

“Mio padre acquistò un terreno nella pianura sotto Cividale, dove costruisce una casa, che diventa quella di tutta la famiglia. Il pianterreno diventò, a sua volta, il ristorante “Le 3 Pietre”, con mia madre che si scoprì una grande cuoca anche per gli altri. Le specialità del pianterreno erano la frittata con le erbe, il salame all’aceto e le quaglie con la polenta e accadeva che gli avventori prenotassero in una botta sola tavolo e quaglie. Il distacco da Clodig fu pieno di lacrime. Lasciavo la mia infanzia, gli amici, i saliscendi e il sogno di una cosa, chiamata libertà. Ma, nella vita c’è sempre un ma che riscrive un destino, a Moimacco, dove vivo tuttora, mi accoglie a braccia aperte la squadretta degli esordienti del paese. Asciugate le lacrime, chiudo gli occhi e mi ci butto dentro, quasi incredulo di poter correre in un campo con delle porte vere e, soprattutto, senza salite, discese e avvallamenti. Lì mi vedono giocare gli osservatori dell’Udinese, la squadra del capoluogo di provincia. Gioco un anno fra i giovanissimi, ma poi si mettono sulle mie tracce altri cacciatori di talenti, che questa volta agiscono in nome e per conto dell’Atalanta, che io non credevo esistesse, come non sapevo dove fosse Bergamo. Correva l’autunno del 1972, quando mi ritrovo catapultato in un collegio in pieno centro cittadino. Il mio talento era già allora quello di correre a perdifiato e di saltare un uomo nell’immediata vicinanza di quella riga bianca che per convenzione segna il confine fra dove tutto ha un senso e dove il pallone si raccoglie con le mani. All’Atalanta resto cinque anni e, durante il terzo, avevo 17 anni, esordisco in serie B. Alla “Casa del giovane” di Bergamo avevo incontrato Antonio Cabrini e me lo sono ritrovato, di punto bianco, nella veste di compagno di squadra. Alla fine di quella stagione mi acquistò la Juventus, che mi lasciò all’Atalanta per completare l’apprendistato. Un congedo felice perché coincise con la promozione in serie A”.

A Torino ha rivisto con meno incanto i saliscendi della sua infanzia…
“All’inizio l’impatto è stato bellissimo. Poi, domenica dopo domenica, ho cominciato a giocare meno e, a poco a poco, mi sono spento. A me piaceva correre, dribblare, partire e ripartire. Un istinto gettato alle ortiche, da chi mi faceva giocare una volta sì e tre no. Avevo perso in fretta i capelli e la voglia di volare”. 

A riportarla dagli inferi sabaudi al Nuovo Cinema Paradiso, ci pensa nel 1982 il Verona, poi dei miracoli…

“Mi acquista dalla Juventus per un miliardo e duecentomila lire. Una cifra, che per un singolo calciatore non avevano mai sborsato. Sì, lì ho ritrovato il paradiso delle mie origini, ai margini del mondo che contava. Lì ho ricominciato a volare. Osvaldo Bagnoli, a cui devo la mia intera felicità calcistica, mi ha capito, lasciandomi libero di seguire il mio istinto, come quello che mi allenava quando ero bambino. Mi ha fatto risentire importante, mettendomi, come si dice oggi, al centro di un progetto che fortunatamente non aveva limiti prestabiliti. E io rivivevo la magia di correre là dove il campo sta per finire, saltare chi aveva il compito di marcarmi e crossare. Una, due, dieci volte, sino a quando il fiato te lo consente. Ma non c’ero solo io. Tutti insieme appassionatamente abbiamo toccato il cielo con un dito, arrivando a vincere uno scudetto in una città che aveva sempre pensato solo a salvarsi. Ricordo una famiglia, un padre, tanti fratelli, Domenico Volpati era quello maggiore, uno spogliatoio unito e granitico, come non avevo conosciuto prima e non avrei più ritrovato dopo. Ricordo un calcio che stava già cambiando. Non ci sarebbe stato più spazio per una favola come quella del Verona. Il nostro scudetto è stato l’ultimo treno preso al volo. Prima che arrivasse il calcio di Silvio Berlusconi”.

Dall’apoteosi alla corsa tutta in salita nell’Inter…

“Con il senno di poi è stato un errore. A Milano ritrovavo Giovanni Trapattoni, l’allenatore del feeling mai sbocciato ai tempi della Juve. Purtroppo, è accaduto, una, due volte, sempre. Andavamo in vantaggio e, in tempo reale, si alzava la paletta che sanciva l’ingresso di un difensore al posto mio. E, sostituzione dopo sostituzione, ho perso, una volta ancora, la felicità di essere me stesso. Il campione d’Italia Pierino Fanna si vedeva costretto a correre a fari spenti, senza né luce, né certezze. E pensare che mi era arrivata un’offerta dal Napoli di Maradona, ma io avevo voluto fortissimamente l’Inter, la squadra per cui tifavo da bambino. Hanno detto e scritto che io avrei avuto un problema con le grandi città. La verità è che all’epoca gli allenatori dettavano non solo le formazioni, ma anche la cornice e le incompatibilità. A distanza di tanto tempo, posso dire che io e il grandissimo Trapattoni non eravamo fatti l’uno per l’altro”.

Segue il calcio di oggi?

“Poco o niente. È diventato per i miei gusti troppo fisico e fuggente. Le rose si sono gonfiate a dismisura e non si fa in tempo ad affezionarsi a un calciatore che già va via. Si gioca all’infinito, ma non ci sono più favole da leggere. La mia nuova passione è fare il nonno. Tommaso e Alice vivono a Roma. Qui a Verona corre, invece, Leonardo, il Fannino che porta e tramanda il mio cognome. Per il resto, continuo la mia corsa: quindici chilometri al giorno, con il ciglio della strada che mi ricorda la linea del fallo laterale”. 

A proposito di ricordi, c’è da raccontare a chi non c’era le due giornate che hanno fatto la storia del calcio a Verona?

“L’anno che verrà festeggeremo 40 anni. La matematica dello scudetto è arrivata il 12 maggio a Bergamo contro l’Atalanta. Con una città intera a mandare in tilt l’autostrada, prima di riempire sino all’inverosimile lo stadio. La settimana dopo, contro l’Avellino, ci fu l’apoteosi. Ricordo, come se fosse ora, l’attimo in cui sbucai insieme a tutti i miei fratelli dal sottopassaggio. Guardai all’insù e pensai di non aver più niente altro da vedere nella vita”.
Da nonno ha cambiato anche la tipologia della sua colazione?
“No, pane, burro e zucchero. Ora come allora. Della vita non si butta niente”.

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