Il foglio sportivo
Quando LeBron James era solo un ragazzino
Viaggio alle origini del campione americano che sta per compiere 40 anni. Quel giorno a Greensboro
“Ma lei davvero è venuto dall’Italia per vedere questa partita?”. La domanda del cronista di Greensboro, domanda diventata poi addirittura un’intervista, era perfettamente compatibile con la mentalità americana di quei tempi. Gli statunitensi del resto avevano sempre faticato ad accettare non solo che in Europa qualcuno fosse interessato ai loro campionati, ma che addirittura ne avesse una conoscenza approfondita ed entusiasta. E c’era comunque un motivo per un viaggio così: un 18enne che stava cominciando ad essere una superstar, LeBron James, ora prossimo al 40esimo compleanno, lunedì 30 dicembre. Quel giorno, 20 gennaio 2003, James e i suoi amici e compagni di squadra del liceo St.Vincent-St.Mary, per tutti SVSM, erano scesi in North Carolina per un torneo chiamato Scholastic Fantastic Play-by-Play, una giornata intera di partite, con varie squadre e una sola vera attrazione, proprio James. La cui popolarità negli Stati Uniti era ormai esplosa, grazie anche alle dirette in ambito nazionale che la ESPN aveva dedicato a due partite di SVSM, caso rarissimo, ma in un’epoca in cui non c’erano ancora social media e Youtube e non esisteva lo streaming, restava una vastissima fetta di americani che James lo conosceva solo dai quotidiani, dalle riviste e dai siti web, che faticavano, pur nella crescente produzione biografica se non agiografica (Sports Illustrated lo aveva già battezzato The Chosen One, Il prescelto), a dare idea della formidabile presenza e del carisma inusuale del ragazzo. Che, visto dal vivo, dimostrava contemporaneamente la sua giovane età, nel viso e in alcune espressioni e atteggiamenti, e la sua maturità personale e sportiva, nella gestione dei momenti e delle situazioni in campo.
Se n’era accorto presto Frank Walker Sr, uno dei personaggi più importanti della sua vita: “non avevo mai allenato uno che imparasse così in fretta un gesto tecnico e diventasse subito il più bravo a farlo”. Anche per questo, Walker aveva nominato assistente allenatore della sua squadra di ragazzini under 10 un James solo… undicenne, perché già a quell’età, ancora bimbo in molti aspetti, era però uno che in campo sembrava vedere lo sviluppo del gioco un’azione prima. I semi del LeBron moderno, non solo in campo, che quel giorno a Greensboro assunsero toni quasi esagerati: gran parte del pubblico sventolava ventagli in cui al posto del tessuto c’era una foto del ragazzo, e gli esponenti di tutte le altre squadre invitate, ad eccezione della locale RJ Reynolds, campione statale in carica, furono praticamente ignorati dai 16.200 spettatori, record di pubblico per una partita di liceo nello stato del North Carolina quello, per dire, dove aveva giocato Michael Jordan, anche se per correttezza bisogna dire che ai tempi di MJ non esisteva la pratica dei tour di squadre liceali, ma nemmeno c’era stata una eco come quella riservata alla SVSM e a James. Che entrò in campo per ultimo, alla presentazione, accolto dai compagni di squadra che si erano messi a… quattro zampe, abbaiando (!) come a riconoscerlo come top dog, numero uno, per poi ricongiungersi a lui in un abbraccio dal quale era emerso il suo vocione esortativo. A osservare, con fare pacato, il coach, Dru Joyce, padre di uno degli altri giocatori: che fare, nei suoi panni, quando hai a disposizione uno che già potrebbe giocare nella NBA? LeBron obbediva, annuendo, ma decideva, creava, prendeva per mano e guidava, permettendosi pure, lui membro di una squadra targata Adidas, di indossare scarpe Nike in omaggio proprio a Jordan e, forse inconsapevolmente perché il corteggiamento era già iniziato, all’azienda di cui sarebbe diventato partner. La grandezza del LeBron adolescente era, per paradosso, quella che si vide quel giorno a Greensboro, quella cioé di saper valorizzare i compagni: considerando che il livello delle partite di liceo spesso è basso, perché per pochi grandi giocatori ci sono tante zavorrine dal fisico e dal talento modesti, James segnava e dominava nelle grandi sfide, contro avversari di nome e impatto come fece nella ‘finale’ contro RJ Reynolds, 32 punti in un dilagante 85-56, ma negli altri casi si dedicava ai colleghi, penetrando con la sua potenza per poi scaricare loro la palla per un tiro facile e insomma facendo di tutto per elevare il loro rendimento. Un’attitudine, quella al passaggio, che gli venne poi incredibilmente imputata in alcuni dei primi anni di NBA, quando ancora era incerto, lui con il suo talento unico, tra il prendere in mano la situazione, come abilità e marketing di creazione delle superstar vogliono, e il coinvolgere i compagni di squadra.
A Greensboro, quel giorno, girava, salutava e tifava Gloria James, la madre, con indosso una canotta bianca numero 23 del figlio. Le consegnammo una foto di gruppo scattata in occasione della celebre (da noi, almeno) sua presenza ad un torneo a Varese solo tre anni prima, con tanto di soggiorno presso una famiglia dei dintorni, la prese e ringraziò senza troppe cerimonie: era, del resto, una figura dinamica, perennemente alla ricerca di attenzioni e movimento. Solo 34enne, era riuscita a fare la madre in condizioni difficilissime, in parte autoinflitte: il padre naturale di LeBron, Anthony McClelland, era più spesso in prigione che fuori e di fatto era sparito, e Gloria era stata ospitata dalla madre Freda fino a che quest’ultima, a soli 42 anni, non era stata stroncata da un infarto, alle 3 di notte del 25 dicembre 1987. Incredibilmente, le foto che girano in questi giorni di un LeBron piccolissimo, con un pallone e canestrino ricevuti a Natale, furono scattate poche ore dopo quella tragedia: Freda era deceduta in cucina, ma Gloria, l’allora fidanzato Eddie Jackson e i fratelli erano riusciti a nascondere tutto a LeBron, che con quel canestro cominciò subito a giocare. In quel 2003, a Greensboro, James pareva già lontanissimo dagli anni peggiori, quelli dell’infanzia e della prima adolescenza, in cui aveva spesso dovuto dormire, con la madre o senza, da amici e conoscenti, perché mancavano i soldi per un affitto anche misero, e proprio soggiornare presso la famiglia di Frank Walker aveva contribuito a metterlo sulla retta via, lui che al terzo anno di elementari aveva saltato 82 giorni di scuola.
Il LeBron James che qualche anno fa ha aperto nella sua Akron un istituto per 240 bambini, non avendo mai dimenticato quanto fosse stato difficile per lui mantenere una regolarità di impegno accademico, non è altro che quello che già a Greensboro e nelle altre città in cui si esibì da liceale voleva cambiare il mondo, un pezzo alla volta, a cominciare dai metri quadrati di parquet intorno a sé per proseguire in ambito commerciale, sociale e politico. Solo che ancora non lo poteva immaginare, nemmeno lui.
Il foglio sportivo - il ritratto di bonanza