Il multiforme Gigi Riva di Paolo Piras
"Vertical. Il romanzo di Gigi Riva" è un libro immarcabile, sia nel senso di marchio, di etichetta definitoria, sia in quello calcistico, in omaggio all’irriducibile e randagia libertà del suo protagonista
Se apri a p. 16 “Luigi era il quarto di quattro figli di Ugo Riva e Edis Rodari. Lucia, Fausta, Candida e lui, unico maschio. A Leggiuno, tremila anime sulla punta del lago, c’era al tempo una sola grande fabbrica: la filanda, la Leggiuno Spa, e prima o poi a lavorarci c’era passato almeno uno per ogni famiglia” capisci subito che è una biografia, e infatti il libro sta in una collana che si chiama “Vite inattese” dell’editore 66thand2nd.
A p. 23 è chiaro che si leggerà principalmente di calcio: “Una volta al torneo di Cugliate, al vedere questo piccoletto iscriversi quando l’età minima era sedici anni, qualcuno andò a protestare: Arbitro, questo qui è un ranocchio, non vedi?, che ci fa con noi grandi? La voce si era già sparsa, di questo fiulìn leggiunese che faceva mirabilie. Luigi manco li aveva i documenti, figurarsi; e allora il Guelfo Ravani, che lo aveva portato apposta sin lì in scooter, di rimando disse: Appunto, cos’è?, vi fa paura un ranocchio? […] E allora, dentro Luis, con qualche mugugno. Finì 6-0, quattro gol del ranocchio”. Quindi biografia di un calciatore.
Ma siccome il soggetto di questo libro non è stato solo calciatore, anzi: e stato anche molto di più di un semplice campione di calcio, "Vertical. Il romanzo di Gigi Riva" (66thand2nd, 2024, pp. 192, 17 euro) è un libro multiforme, forse immarcabile, sia nel senso di marchio, di etichetta definitoria, sia in quello calcistico, in omaggio all’irriducibile e randagia libertà del suo protagonista, dentro e fuori del campo da calcio. Un libro a cui si perdona volentieri il facile cliché del sottotitolo, perché quando uno vive un’esistenza larger than life, come è stata quella di Riva Luigi da Leggiuno, sponda magra del Lago Maggiore, detto dapprima Luis, poi Furzelina, quindi Giggirriva, e infine incoronato Rombo di Tuono, la vita non può che essere un romanzo.
Però il romanzo – genere bastardo di natura perché mimetico e sinfonico, intimo e collettivo, dritto (o vertical) e divagante (o latitudinario) – bisogna saperlo pensare prima, orchestrare poi e infine “metterlo giù”. Paolo Piras c’è riuscito dove molti altri ci avevano provato. L’autore è cagliaritano, e questo era già un bel portarsi avanti; ma ancora di più ha funzionato il fatto che sia giornalista di cose che col calcio non c’entrano – dirige la redazione Esteri a Rai News 24 – e che abbia avuto la stessa intuizione di Arturo Silvestri, detto Sandokan, il primo allenatore di Riva al Cagliari. Nel maggio del 1964, durante un intervallo di Verona-Cagliari, negli spogliatoi del Bentegodi, Silvestri, che inizialmente non lo vedeva punta, decise il destino del giocatore: “Adesso Riva parte da sinistra e arriva al centro”. Per raccontare di Riva, e per tenere tutto insieme – la sinfonia, ecco – e mettere in pagina la storia minima e l’epica, il dramma e il melodramma, la politica e il costume, la cronaca e il saggio, Paolo Piras ha avuto la determinante intuizione di concedersi il tempo e lo spazio (e la bellezza) di partire largo, da lontano, e infine “arrivare al centro” della storia.
Di nuovo, se leggi a p. 17 sembra di stare in mezzo a un reportage e, nello stesso tempo, a un’indagine psicologica: “Luis, il piccolo Luigi, fa poco caso alle strettezze: c’è nato dentro, figlio della guerra. […] Il suo mondo è dalla nascita quel pugno di case tra la chiesa e la scuola, tra il comune e l’oratorio di San Primo; il lago, verde, lontano sullo sfondo, promessa non mantenuta. E all’esatto centro di quello spazio angusto, […] il lembo di terra spelato e sterrato lasciato dal prete al calcio. Quel campo, sì e no trenta metri in linea d’aria da casa, quel campo era per lui a tutti gli effetti parte stessa della casa, una stanza della sua vita, quella del gioco più bello. In quel campo, il timido, mutanghero Luis rialzava la testa con piglio di re”. Se però apri a p. 45 trovi un capitolo di storia culturale del calcio: “Come giocava, dunque, Gigi Riva? Anche questo resta nelle nebbie dei pochi documenti rimasti – i gol, quelli ci sono tutti; ma come arrivasse a farli, quello resta nello spazio magico dell’epica. Cominciamo a raccontare, alle generazioni nate adesso, che cos’era il calcio di allora…”.
È saggio antropologico quando, in molti luoghi del testo, ma soprattutto in questo passo di pp. 119-20, Piras spiega il legame di Giggirriva con l’isola: “La Sardegna lo ha preso a sé, ne ha fatto un figlio d’anima – così si chiamano nella cultura matriarcale sarda i figli scelti e non fatti, voluti anche quando già diventati uomini e donne, per affinità, per gioia di crescerli. Riva, fill’e anima di un popolo intero, ha trovato in questo modo un’altra famiglia, in luogo di quella perduta e insostituibile; se l’è scelta a sua volta, ne è stato amato, è stato lasciato in pace, ed è tutto qua. L’isola in cambio gli ha chiesto: Sii eroe. Trasfigurati. Diventa sul campo il simbolo di un’integrità e di un coraggio che noi abbiamo sempre sognato essere nostri. Corri sul campo, segna sul campo, sul campo spaccati, se necessario, le gambe; e alla fine, sul campo, vinci. E infine, se ci sarà da perdere, perdi con quelle stesse insegne, e senza lasciare per strada un’oncia di dignità. Un prezzo formidabile, pagato da Riva all’Isola fino all’ultimo soldo”.
È epica vera quando le gesta dell’Armata Bianca che vince lo scudetto 1969-70 diventano cantare in endecasillabi sciolti: “Come un intero popolo che migra, / lucente d’armi e carico di forza / che viene dal bisogno e dal valore, / e coi suoi carri muove e poi dilaga, / e polvere solleva tutto intorno, / così Luigi Riva e la sua armata / calavano in avanti tutti uniti, / un’avanguardia di popolo in cammino, / con la felice arte del pallone / che simula un assalto ma di gioia,/ nel nome di quell’isola lontana / che un po’ si sente Italia e un po’ diversa”.
Ma è davvero romanzo – Sessant’anni d’isolitudine? – quando, a p. 127, ti ritrovi all’improvviso dentro il punto di vista del protagonista, alla fine di Italia-Germania 4-3: “E la sua felicità in quel momento sarà visibilmente perfetta, irraggiungibile, perché è l’esatto sogno di ogni bambino che fa calcio – segnare, poi farsi raggiungere, poi rimontare, ancora farsi rimontare e finire esausto e vincitore quando è davvero l’ultima occasione, quando imbrunisce e sta per suonare l’avemaria e tua madre si affaccerà dal balcone a chiamarti proprio di lì a qualche secondo e tu ti godi l’odore di terra smossa ed erba e pensi: è proprio una giornata perfetta, e lo sarà per sempre nella tua testa, e potrà accadere a sette anni sul campetto dell’oratorio sotto casa oppure, se ti va anche meglio, a ventisei anni, in uno stadio all’altra parte del mondo, tra centomila spettatori urlanti”.
Vertical di Paolo Piras – che prende le mosse con uno strepitoso piano sequenza orizzontale, la scena dei funerali di Gigi Riva sul sagrato di Nostra Signora di Bonaria, il 24 gennaio 2024: “La bara scivola verso il tramonto e intorno si fa un silenzio insensato, trattengono il fiato tutti insieme in trentamila, quarantamila, quanti sono, allora è vero, è successo davvero, è mortale, ed è morto” - è il più bel libro che si sarebbe potuto scrivere su uno degli ultimi eroi popolari del nostro fuggevole, o forse già fuggito. tempo.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA