È iniziata la Dakar nel deserto dell'Arabia
I piloti sono partiti da Bisha, arriveranno a Shubaytah dopo 12 tappe, 7.706 chilometri, di cui 5.146 di prove speciali. La grande novità di questa 47esima edizione è la separazione dei percorsi tra auto/camion e moto per aumentare la sicurezza
Della prima Dakar ormai ha soltanto il nome e lo spirito d’avventura anche se auto, moto e camion di oggi sono astronavi rispetto a quelli che parteciparono alla prima edizione del 1979. Dopo aver attraversato l’Africa (fino al 2007), il Sud America (dal 2009 al 2019), per il sesto anno di fila è in Arabia Saudita dove hanno deciso di investire nello sport per ripulirsi l’immagine e trasformarsi in una meta turistica internazionale. La Dakar ci è arrivata prima della Formula 1, del tennis e del calcio che in questi giorni sta giocando laggiù la Supercoppa italiana nell’indifferenza della gente del posto, anche se rispetto ad anno fa è andata un po’ meglio. Si comincia oggi e davanti agli 807 concorrenti (con 493 mezzi) ci sono 12 tappe, 7.706 chilometri, di cui 5.146 di prove speciali. Si viaggia da Bisha a Shubaytah attraversando il deserto sulla costa orientale del paese.
La grande novità di questa 47esima edizione è la separazione dei percorsi tra auto/camion e moto per aumentare la sicurezza. Oltre il 45 per cento delle prove speciali sarà diverso per i motociclisti, il che potrebbe complicare la vita di chi gareggia in auto e in camion che così non potrà più seguire le tracce delle moto sulla sabbia, un trucchetto che in passato agevolava la navigazione. Ognuno andrà per la sua strada guardando con un po’ di paura alla supertappa da 48 ore senza assistenza di 967 chilometri che quest’anno andrà in scena all’inizio della gara. Le nazioni rappresentate sono oltre la settantina con francesi, spagnoli e italiani a fare i numeri maggiori.
Il fascino della gara è cambiato negli anni, ma resiste. Richiama sempre, anche se ormai non c’è più spazio per le improvvisazioni e che arriva alla partenza ci arriva preparato, anche se magari non è un professionista del mestiere. Lo spirito d’avventura, però, rimane: “Il roadbook lo riceviamo pochi minuti prima dell'inizio della tappa, non il giorno prima come avveniva in passato. Sta ai copiloti capirlo bene e noi piloti dobbiamo aiutare il più possibile. Quando arriviamo in posti difficili, lavoriamo insieme per trovare la strada giusta”, racconta Carlos Sainz senior che la Dakar l’ha vinta quattro volte, l’ultima lo scorso anno a 61 anni. Dopo averla vinta con Volkswagen, Peugeot, Mini e Audi, quest’anno ci riprova con la Ford che ha deciso di lanciare la sfida nel deserto con Raptor T1+, un “truck” da corsa costruito appositamente per questa sfida, prima di rituffarsi in Formula 1 con la partnership con Red Bull per i nuovi motori 2026.
Dopo il ritiro dell’Audi (concentrata sul programma F1), oltre a Ford è entrata in gioco Dacia con una squadra super competitiva con Nasser Al-Attiyah, vincitore di cinque Dakar e vincitore del bronzo olimpico a Londra 2012 nel tiro a volo, Sébastien Loeb, nove volte campione mondiale rally ma ancora a zero titoli nel deserto e la spagnola Cristina Gutierrez. Ford completa invece la squadra con lo svedese Mattias Ekström – come Sainz proveniente dall’Audi –, Nani Roma, vincitore della Dakar sia in moto che in auto, e l’americano Mitchell Guthrie. A completare il quadro dei team ufficiali in lotta per la vittoria ci sono poi Toyoya e Mini XRaid.
Tra i camion da segnalare la presenza di Danilo Petrucci, passato dalle due ruote ai giganti multi ruota pensando a papà che guidava il camion quando lui correva nel Motomondiale. Nel deserto si era già stato nel 2022 in moto, vincendo pure una tappa. Questa volta è in gara con il team Italtrans-Prometeon con Claudio Bellina e Marco Arnoletti. “Con i camion ho sempre avuto confidenza perché mio papà faceva il camionista… la Dakar insegna tanto a livello di guida e di persona”. E poi c’è sempre il divertimento. Quello che vedi negli occhi chiari di Irene Saderini, giornalista, pilota per hobby e al via con un super Iveco Magirus per raccontare la corsa dall’interno.
Il Foglio sportivo