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Il Foglio sportivo

Il segreto del calcio di Conceiçao nasce dalla sofferenza

Marco Gaetani

Bizzoso, irascibile, risoluto, portato alla rissa eppure tremendamente leale. Quella meccanica del gesto mescolata alla fantasia del dribbling, la necessità di avere soluzioni in grado di mettere in difficoltà i terzini avversari. Chi è davvero l’allenatore del Milan

Ai tempi in cui giocava, quando il capello era più lungo e con una riga in mezzo squisitamente anni Novanta, Sérgio Conceição aveva un certo gusto per una giocata fuori dagli schemi. Nei momenti in cui si trovava a ricevere di spalle al terzino avversario dei palloni lungolinea, gli piaceva rinunciare allo stop: allargava le gambe e si girava verso destra, usando lo spazio al di là della linea laterale per lasciarsi andare a una corsa che quasi sempre fulminava il marcatore. Un numero ad alto rischio, che concedeva al difensore la chance di non abboccare e controllare comodamente il pallone. Eppure, per motivi che sfuggono alla logica, riusciva spesso, con il portoghese che in alcuni casi si ritrovava a dover allargare la linea di corsa per evitare persino i guardalinee, sempre piazzati sulla sua corsia prediletta, e tornare così ad accarezzare il pallone per preparare il cross. Era un’ala destra pura, Conceiçao, cresciuto in un calcio in cui i suoi compiti erano chiari: correre, dribblare, crossare.

L’assist per il centravanti, possibilmente grande e grosso, quale impellente ragion d’essere. La meccanica del gesto mescolata alla fantasia del dribbling, la necessità di avere in faretra soluzioni in grado di mettere in difficoltà i terzini avversari. Si prendeva pause infinite nel corso delle partite, salvo poi, specialmente nell’epoca laziale e parmense, accendersi in fiammate che facevano la fortuna degli attaccanti. Poi il calcio è cambiato, gli esterni sono diventati sempre più a piede invertito e meno votati ai corridoi. E allora Conceiçao, complice la carta d’identità, ha fatto quello che gli riusciva meglio già con quella giocata a effetto: si è spostato al di là della linea laterale. Il suo punto di vista non è cambiato: aveva sperimentato la solitudine dell’ala destra, folgorante titolo di un meraviglioso libro di Fernando Acitelli, e gli è sembrato naturale porsi dall’altra parte, davanti alla panchina, sulla scia di tanti esponenti di spicco di quella Lazio, squadra abituata a pensare calcio seguendo i dettami di un signore come Sven-Goran Eriksson. C’erano futuri allenatori di rango (Simeone, Mancini), uno che non abbiamo smesso di rimpiangere (Mihajlovic), altri ancora in fase di formazione (Nesta, Almeyda, Stankovic). E c’era anche Simone Inzaghi, lo stesso che si è ritrovato a dover fare i conti con la prima fiammata improvvisa del secondo corso italiano di Conceiçao

Quella del portoghese cresciuto a Ribeira de Frades non è una stata una vita scivolata via nell’agio e nelle comodità. Settimo di otto figli, famiglia umile, pasti arrangiati in tavola, di corsa a lavorare con il padre muratore fin dai 12 anni. Il pallone in strada, nei ritagli di tempo, con gli amici. E il destino che cambia nel giro di 48 ore: l’agognata firma con le giovanili del Porto, richiesta, implorata per mesi al padre che non voleva lasciarsi convincere. Sérgio, ancora minorenne, lo prende per sfinimento, fino al sì. E poi una telefonata che arriva al bar del paese il giorno dopo: l’incidente in moto, il corpo del padre sdraiato sull’asfalto. Due anni dopo, quando è già al Penafiel in prestito dal Porto, il destino gli porta via anche la madre, da tempo paralizzata. Da quei giorni scende in campo sapendo di dover convivere con un lato oscuro che non rinnega, anzi, lo asseconda. Ed è anche ciò che lo alimenta.

Bizzoso, irascibile, risoluto, portato alla rissa eppure tremendamente leale. “Conosco la sofferenza che hanno attraversato i miei genitori. Non vivevano, sopravvivevano. Mi hanno cresciuto con valori che mi porto ancora dietro, libertà e responsabilità. Mia madre a casa, mio padre nei cantieri, giorno e notte. Ho fatto di tutto: trasportato i secchi di materiali, posato i mattoni. Il successo è rigore, disciplina e un po’ di anticonformismo. Per la maggior parte delle persone, è normale vincere una volta ogni tanto: per me no, io voglio vincere sempre. Sono sempre stato così competitivo e intransigente e mi irrita avere a che fare con persone che la pensano diversamente”, raccontava qualche anno fa in un’intervista a Tribuna Expresso che aveva il sapore del flusso di coscienza. 

Gli spigoli di Conceiçao non sono nascosti bensì esposti, visibili a tutti, riconoscibili. Li vede persino chi oggi lo descrive come un taumaturgo, cercando di scorgere mirabilie tattiche per le quali semplicemente non ha avuto ancora il tempo dopo l’addio a Fonseca. “Per lui la fame è più importante della tattica”, ha detto a caldissimo, dopo il clamoroso ribaltone sull’Inter, Christian Pulisic, che a quella fame si è aggrappato quando le gambe sembravano non rispondere più: suo il gol del 2-2, suo l’invito delizioso per Leão, a sua volta ispiratore del tap-in di Abraham che ha lasciato l’Inter di sasso quando i rigori erano dietro l’angolo. Quel che è certo è che alcune personalità di questo Milan avevano bisogno di sentire qualcuno che tenesse le redini con mano salda: è sempre complesso cercare di capire chi ha sbagliato più forte, ma sembra evidente che qualcuno non fosse in sintonia con l’altro portoghese, quello silurato ancor prima di Milan-Roma in un modo che, è lecito immaginare, ancor l’offende

Conceiçao non ha avuto il tempo materiale di mettersi a pensare, ha dovuto immediatamente far capire a tutti che era il momento di trasmettere una musica ben diversa. Ha strappato il Milan alla malinconia di questa bizzarra prima metà di stagione con due rimonte che non sembravano alla portata di una squadra solo apparentemente priva di un’anima. Ha alzato i toni, rendendosi subito riconoscibile, indispensabile. A Riad è andata in scena quella che sembra la riproduzione fedele del suo primo impatto con il calcio italiano: con la Lazio vinse la Supercoppa nel 1998 battendo 2-1 la Juventus al Delle Alpi con un suo gol, arrivato al minuto 48’10 del secondo tempo. Quando Tammy Abraham ha spinto in porta il pallone del 3-2, il cronometro recitava 47’50. Uno scarto di 20 secondi, 27 anni dopo, da Torino a Riad. L’ennesima finta arrivata quando tutti pensavano ad altro. 

 

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