Elogio dei nervi d'acciaio di Jannik Sinner
Il tennista italiano ha vinto gli Australian Open con i pesi attaccati alle caviglie: non è da tutti giocare sereni una finale con una sentenza sul gobbo che arriva tra qualche settimana (il ricorso della Wada) e che potrebbe significare squalifica anche per due anni
Non si può salire sul carro del vincitore Sinner perché non c’entra più nessuno, quindi si sta tutti in piedi a cantare il peana. Vince, sì, vince. E’ bravo, è misurato, non fa l’eroe spaccone, gli tremano le gambe in campo, s’ammala e non si lamenta mai. “Qualcosina c’è, ma sto combattendo”, poi beve il succo di cetriolini e gioca lo stesso. Questo è quindi non un epinicio di vittoria sportiva ma un elogio dei nervi d’acciaio.
Gli ultimi Open d’Australia non erano solo una partita. Perché a vincere in finale i campioni son buoni tutti. Qui si trattava di zompare sul campo coi pesi attaccati alle caviglie: vincere in finale con una sentenza sul gobbo che arriva tra qualche settimana (il ricorso della Wada) e che potrebbe significare squalifica anche per due anni. Dentro o fuori lo decidono gli altri.
Che si fa quando le condizioni non sono buone, anzi pessime? Si crolla, altroché.
Ci siamo passati tutti. Ci si dimette legittimamente da quello che si aspettano da noi per mancanza di forze, di spirito, di quello che serve. Dopo la resa, comincia un altro brutto quarto d’ora. Delusione. La chiamo la regola dell’ortica: è quando lasci la presa che inizi a sentire le siringhe. Ci vuole coraggio pure per rinunciare, certo. Solo che è un coraggio dell’altro tipo, un coraggio scuro e molle. Dopo senti addosso tutto il senso di spreco. Il sollievo di essersi tolti un peso troppo pesante viene rosicchiato tutto intero dal rimorso, e ci mette un attimo. Che importano le belle parole degli altri? Le aspettative non erano le loro, erano prima di tutto le mie. Che me ne faccio degli incoraggiamenti, delle pacche sulla spalla? Il lavoro buttato è il mio. Il tempo buttato è il mio. Sì, gli applausi alla fragilità esibita, ma poi, dopo gli applausi?
Alla bellezza della fragilità ho sempre creduto il giusto. Perché non dura. E’ un buon aggeggio per le poesie, ma la fragilità, sulle cose, non attacca. Il fragile, con la fragilità, non ci fa niente. Il fragile vuole liberarsene. Il fragile vuole che ci si scordi che è stato fragile. Il fragile vuole essere come tutti e subito.
Sì, certo, gli sportivi hanno scelto la resistenza alla pressione come specifico professionale, ma si tratta sempre di poter sorvegliare un’ansia per volta. Pure Maradona ammetteva che quando era triste giocava male, Yannik riesce nell’impresa. E perciò sono i nervi il vero talento, i nervi fanno la differenza, chi governa i nervi governa le cose. Spero che in futuro non finisca pure questo nella parte sbagliata della retorica, ma c’è da dire che i miracoli di questo tipo te li concedono, solo che capitano tutti nello stesso modo: bisogna dirsi vediamo se si può fare nonostante tutto, e poi farlo.