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Il Super Bowl della pace

Marco Bardazzi

L’unico argomento di cui Biden e Trump potevano parlare civilmente. Arriva il match che per un po’ placherà le divisioni

La limousine nera presidenziale li ha aspettati sotto il portico della Casa Bianca. Joe Biden, presidente degli Stati Uniti ancora per un’ora, è salito a bordo sul lato destro, quello riservato al commander in chief. Donald Trump ha fatto il giro dietro l’auto ed è salito su quello sinistro, sedendosi a fianco del suo vecchio nemico sconfitto. Il viaggio che li attendeva non era lungo, meno di tre chilometri, il tempo di sfilare su Pennsylvania Avenue salutando la gente dietro le transenne per raggiungere Capitol Hill. Ma era un momento che poteva creare imbarazzi tra due uomini che non si sopportano, costretti a viaggiare per alcuni minuti fianco a fianco nella stessa auto. Di cosa potevano parlare Biden e Trump quella mattina del 20 gennaio scorso, senza correre il rischio di litigare prima di arrivare al Campidoglio per la cerimonia di giuramento della quarantasettesima presidenza? La scelta è caduta sull’unico tema che ancora unisce l’America: il football.

   

La senatrice del Minnesota Amy Klobuchar, ammessa sulla limousine presidenziale in veste di responsabile delle cerimonie dell’Inauguration Day, ha rivelato che il tema di conversazione scelto dai due presidenti non sono state le guerre nel mondo, né le politiche sull’immigrazione o l’economia. Si è parlato invece dei playoff del giorno prima, della grande stagione della squadra di casa di Washington e dell’andamento del campionato più seguito dagli americani di ogni fede politica. In uno dei momenti di maggior divisione e polarizzazione del paese dai tempi della Guerra civile del Diciannovesimo secolo, è lo sport la grande valvola di sfogo dell’America. E tra tutti gli sport soprattutto uno, quello che vive intorno alla palla ovale, di gran lunga il più popolare negli Stati Uniti.

   

Dopo le prime due settimane di presidenza di Trump, che hanno sconcertato il mondo con la raffica di provvedimenti, ordini esecutivi e dichiarazioni, l’America tira il fiato con il Super Bowl, lo spettacolo che ogni anno riesce a catalizzare l’attenzione di tutti e a frenare anche gli istinti più bellicosi. Vedere i colossi del football che si scontrano in campo come carri armati umani, sotto gli occhi di una platea televisiva che supera sempre di gran lunga i 100 milioni di spettatori, ha un effetto rilassante sull’intera società americana.

   

Donald Trump per due settimane ha avuto tutta l’attenzione per sé, ma nei prossimi giorni faticherà a mantenere i riflettori puntati sulla Casa Bianca: gli sguardi si sposteranno verso New Orleans, che domenica prossima ospita la cinquantanovesima finalissima del football con i Chiefs di Kansas City in campo contro gli Eagles di Philadelphia. 

   

Il Super Bowl LIX (gli americani amano dare numeri romani al football, perché evocano un senso di gladiatori e di Colosseo) quest’anno arriva come un balsamo sulle ferite e le fatiche dell’America. Lo scorso anno la situazione era completamente diversa, a parte il fatto che c’erano sempre i Kansas City Chiefs. La finale del febbraio 2024 arrivava in un momento particolare, con Trump che si era ormai aggiudicato la nomination dei repubblicani facendo fuori gli avversari Nikki Haley e Ron DeSantis e con il presidente Biden che dalla Casa Bianca dava forti segni di stanchezza, facendo suonare un primo allarme rosso tra i democratici. La partita, di solito un momento di unione per il paese a parte la rivalità tra le due tifoserie coinvolte – che comunque in America non è quasi mai violenta –, per una volta era stata politicizzata. Colpa della storia d’amore tra la cantante Taylor Swift, la star più importante del firmamento artistico americano, e il tight end dei Chiefs, Travis Kelce.

   

Il mondo Maga di Trump era in preda a paranoie nei confronti della Swift, convinto che avrebbe usato la propria popolarità per aiutare Biden e che addirittura il fidanzamento fosse una sceneggiata, messa in piedi solo per permettere a Taylor e Travis di stupire il mondo a fine partita con un endorsement per il candidato democratico. Stupidaggini inesistenti che un anno fa fecero molto discutere e che i due fidanzati, come il resto d’America, si sono messi alle spalle: un anno dopo stanno ancora insieme, ma ora si parla solo di come giocherà lui, non di cosa farà lei in tribuna d’onore. Quanto a Biden, un mese dopo il Super Bowl riuscì a fare una buona prestazione nel discorso sullo stato dell’Unione in Congresso, illuse il suo partito di essere pronto a reggere la sfida di Trump e probabilmente proprio in quel momento fece perdere la Casa Bianca ai democratici.

   

Stavolta la finale di New Orleans torna a essere una faccenda prevalentemente sportiva, un momento di grande spettacolo e un business enorme, ma la politica dovrebbe restare fuori dalla porta, relegata al mondo frenetico degli ordini esecutivi firmati a raffica da Trump con il pennarello nero. La partita più importante dell’anno torna al Superdome della città della Louisiana per la prima volta dal 2013, quando un blackout di mezz’ora lasciò al buio giocatori e spettatori e fece quasi saltare lo show. Lo spettacolo dell’intervallo, che ogni anno è l’evento musicale più seguito in America, stavolta toccherà al rapper Kendrick Lamar, che aveva avuto lo stesso onore già tre anni fa, mentre l’inno nazionale sarà cantato da un’altra superstar, Jon Batiste. I biglietti per assistere alla partita come al solito sono introvabili, a meno di non voler pagare cinquemilasettecento dollari per i posti più economici attualmente disponibili (si tratta comunque della metà di quello che chiedevano i bagarini un anno fa per la finale a Las Vegas). 
Il mondo della pubblicità si prepara come di consueto a presentare i nuovi spot dell’anno, i più costosi in assoluto, che in occasione del Super Bowl vengono giudicati dal pubblico e dalla critica come se fosse una notte degli Oscar dell’advertisement. E nelle case degli americani ci si appresta a divorare durante il match un miliardo e mezzo di ali di pollo e a ordinare tredici milioni di pizze, accompagnate da 52 milioni di confezioni di birra da sei lattine ciascuna.

   

Musica, pubblicità, consumi alimentari e alcolici però sono solo la cornice colorata dell’evento: il piatto principale è quello sportivo. Qui la grande storia del 2025 è la conferma o meno di una dinastia regnante e di un re del football che ormai sta diventando leggendario. La dinastia è quella dei Chiefs, che si apprestano a disputare il quinto Super Bowl nelle ultime sei stagioni e hanno la possibilità di stabilire un record assoluto vincendone tre consecutivi. La squadra di Kansas City – che a dispetto del nome è una città del Missouri – è la grande protagonista degli anni Venti di questo secolo ed è diventata un fenomeno studiato da tutti, un modello perfetto di cosa significa essere un team, durare nel tempo e mantenere sempre altissimo il livello agonistico. Merito del general manager Brett Veach, che ha costruito un’organizzazione del lavoro che adesso cercano di imitare anche le multinazionali, e del ruvido allenatore Andy Reid, da dodici anni alla guida di una squadra che ha cominciato a vincere negli anni della prima amministrazione Trump e sta ancora vincendo ora che è arrivato il bis alla Casa Bianca (dove siede un presidente che da quelle parti, nel Midwest, ha trionfato tra i tifosi dei Chiefs alle elezioni di novembre). 

 

Ma il vero eroe di Kansas City, il re del football contemporaneo è Patrick Mahomes, che a 29 anni è al suo quinto Super Bowl e punta a far saltare i record storici di Joe Burrow e Tom Brady, i quarterback finora di maggior successo nella storia della palla ovale americana. Mahomes sta raggiungendo un livello di fama dove non si è più solo campioni, ma si diventa leggende. Quell’olimpo dello sport americano dove sono arrivati personaggi come Michael Jordan e lo stesso Brady.

   

Se domenica gli riuscirà trascinare di nuovo i Chiefs alla vittoria, travolgendo gli Eagles come già è successo nella finale di due anni fa, Mahomes consoliderà lo status di personaggio più celebre d’America dopo Taylor Swift e Donald Trump. Merito della sua bravura in campo e anche dell’abilità di saper gestire il proprio personaggio, accettando per esempio di far entrare in casa le telecamere di Netflix per raccontare la sua vita in una serie tv di grande successo.

   

A cercare di rovinare la favola di Mahomes saranno gli Eagles guidati dal quarterback Jalen Hurts e dall’allenatore Nick Sirianni e trascinati soprattutto dal potente running back Saquon Barkley. La squadra di Philadelphia ha già infranto una bella storia domenica scorsa, sconfiggendo duramente (55-23) i Commanders di Washington nella partita che decideva l’accesso alla finale a New Orleans. Erano più di trent’anni che la squadra della capitale non arrivava alla fase finale del campionato e stavolta aveva fatto sognare i tifosi, convinti fosse in arrivo il miracolo di tornare a disputare un Super Bowl dopo decenni di oblio.

   

E’ soprattutto dei Commanders che parlavano Biden e Trump nella limousine, con il neopresidente che si è detto interessato a costruire per loro un nuovo stadio nella capitale (al momento sono costretti a giocare in Maryland). E’ curioso, peraltro, che Trump mostri entusiasmo per i Commanders, che sono stati protagonisti in questi anni di quella che lui chiamerebbe una operazione “woke”. Dal 1933 al 2020 i campioni di football di Washington si sono fatti chiamare Redskins (pellerossa), ma nell’ultimo anno dell’amministrazione Trump 1, nel pieno dell’ondata della correttezza politica che ora il Trump 2 vuole cancellare, fu deciso il cambio di nome, ritenendolo razzista. 

   

Non si sa ancora se The Donald andrà al Superdome per seguire il Super Bowl, prendendo una pausa dopo tre settimane di una presidenza partita con toni frenetici. Il football è sempre stato croce e delizia per Trump. Come larga parte degli americani, è appassionato dello sport, ma non gli è mai riuscito di diventarne un protagonista, nonostante ci abbia provato in tutti i modi. E Trump non sopporta di non essere protagonista. 

   

Con la Nfl (National Football League) ha un rapporto complesso che molto spesso è diventato conflittuale. Negli anni Ottanta, quando era un imprenditore immobiliare in ascesa a New York, già protagonista da tempo delle cronache, Trump tentò prima di mettere le mani su un grosso team della Nfl, poi si accontentò di acquistare e diventare il presidente dei New Jersey Generals, una squadra mediocre che militava nella United States Football League (Usfl), un campionato rivale rispetto a quello della principale League. Da qui lanciò la sua sfida alla Nfl, la portò in tribunale per forzare una fusione tra i due campionati e perse, segnando la fine non solo dei Generals, ma di tutta la Usfl. 

 

Invece di tenersi alla larga dal football, da quel momento provò ad acquistare in ogni modo una squadra della Nfl, fallendo una dopo l’altra le scalate ai Colts di Baltimora, ai Cowboys di Dallas, ai New England Patriots e ai Buffalo Bills. In una delle inchieste sui presunti conti “gonfiati” della Trump Organization, è emerso che una delle ragioni che spingevano Trump a far ritoccare al rialzo i suoi libri contabili, era il bisogno di sovrastimare gli asset per convincere le banche a prestargli i soldi che servivano per acquistare una squadra. Un gioco che gli era riuscito con i grattacieli e con i casinò di Atlantic City, ma che non ha funzionato con la Nfl. Il mondo del football lo ha sempre respinto e isolato, non volendolo tra i propri protagonisti. E’ anche per questo che durante il primo mandato Trump è entrato in dura polemica con i proprietari delle squadre, colpevoli a suo dire di non essere abbastanza duri con i giocatori che, seguendo l’esempio del quarterback Colin Kaepernick, avevano cominciato a inginocchiarsi in campo durante l’inno nazionale americano, come forma di protesta contro le violenze di cui erano vittime i neri a opera delle forze di polizia. 

   

Sono passati pochi anni da quelle tensioni, ma sembra un’altra America. Trump è di nuovo presidente con un mandato assai più solido della prima volta. Non gli è riuscito di comprare una squadra di football, ma si è consolato diventando due volte presidente degli Stati Uniti. E forse anche per lui il Super Bowl, adesso, può essere un momento per tirare il fiato e lasciar rilassare un po’ il paese. 

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