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Foto Epa, via Ansa
in America
I Philadelphia Eagles vincono un Super Bowl più appassionante in tribuna che in campo
La finale è stata vinta dalla squadra che aveva rifiutato l'invito di Trump alla Casa Bianca sette anni fa per protestare e politiche razziali dello Studio Ovale. Il presidente lascia la tribuna prima della fine della partita
La partita non è stata granché, dominata da capo a fondo dai Philadelphia Eagles, ma la serata del Super Bowl di New Orleans non è stata avara di eventi. Trump, innanzitutto: primo presidente in carica ad assistere di persona a una finale del campionato americano di football professionistico perché, aveva detto alla vigilia, la sua presenza avrebbe inviato un messaggio positivo per la nazione (forse “Eccomi qua, anche alla festa della grande condivisione: veglio su di voi e vi osservo”). Del resto Donald non ha sprecato la domenica, nella quale è riuscito a infilare un round di golf con Tiger Woods, l’annuncio di dazi da strozzino sulle importazioni straniere di acciaio e alluminio, il rilancio del progetto Gaza Beach e la dichiarazione dell’impalpabile Giorno del Golfo d’America. Peccato che la squadra che ha trionfato nel match decisivo del campionato sia la stessa che sette anni fa rifiutò il suo invito a festeggiare alla Casa Bianca - niente medagliette e pasticcini con Trump e la first lady - per una clamorosa presa di posizione contro le politiche razziali dello Studio Ovale e sotto le insegne d’una città di grande tradizione democratica e operaia. Certo è solo una magra soddisfazione per gli anti-Trumpiani sapere che il presidente abbia lasciato lo stadio prima della fine dell’incontro, per non dover applaudire chi gli aveva così apertamente dimostrato avversione, ma di questi tempi ci si deve accontentare delle briciole. Avrà invece festeggiato Jill Biden, fan degli Eagles, anche lei in tribuna insieme al nipote Hunter ma senza il consorte, mentre Taylor Swift, in clamorosi mini-pants in uno sky box, consolerà il fidanzato Travis Kelce, il tight end dei Kansas City Chiefs, stavolta sbriciolati dagli avversari che due anni fa avevano sconfitto di un’incollatura. Del resto il football, che è il più intensamente popolare dei grandi sport americani, vive anche di proiezioni lanciate da ambiti di contrapposizione diversissimi, a partire dall’agone politico e dai suoi rancori, o dalle guerre culturali sui grandi temi civili, con le questioni della razza al primo posto, in una lega sportiva estremamente conservatrice come la Nfl.
Solo nel 2022, ad esempio, è stato concesso per la prima volta a un artista hip hop l’onore d’intrattenere la mastodontica platea televisiva della partita, con lo show di metà tempo (quella volta toccò a un’ampia delegazione che includeva Dr. Dre, Snoop Dogg, Mary J. Blige, Kendrick Lamar e 50 Cent). Stavolta, invece lanciando un messaggio di cambiamento e a sancire lo straordinario status raggiunto nel frattempo da Kendrick Lamar nel mondo dello spettacolo americano, la ribalta è stata tutta per lui, con 13 minuti di live set in cui al suo fianco sono apparsi solo la vocalist SZA, il suo produttore Mustard e l’attore Samuel Jackson in costume di Uncle Sam: “Non fare troppo rumore, non fare il matto, sei troppo ghetto!” Jackson a un certo punto ha ammonito teatralmente KL con toni sardonici, e il rapper per tutta risposta ha intonato “Humble”, la canzone del nero consapevole che è meglio tenere la testa bassa se si vuole portare a casa salva la vita, mentre tutt’attorno i ballerini in costumi blanchi, rossi e blu formavano con la loro coreografia la bandiera a stelle e striscie - e il passeggero pensiero critico non sarà sfuggito a nessuno. Che poi è stato l’unico momento davvero “politico” nel set del rapper di Compton, l’area più disgraziata di LA, curvo, gracile, a prima vista privo del phisique du role del campione di una razza, e invece così rappresentativo di una condizione, perché quelli come lui, i neri d’America con cicatrici anche nella propria esteriorità, non hanno ancora finito d’incassare colpi e ingiustizie. Ma il culmine della performance di Lamar e il momento più atteso dagli americani – perché tutto il mondo è paese, e se Chiara Ferragni è più desiderabile in disgrazia o Fedez vende di più da ragazzaccio, là è lo stesso – il clou è arrivato quando KL ha intonato “Not Like Us” il pezzo con cui ha mandato al tappeto il rivale Drake nel lungo dissing che vede impegnati i due rapper. KL ha evitato di dare del pedofilo a Drake, come nel testo originale della canzone, ma l’ha eseguita con tale grinta e convizione da seppellire il rivale sotto una montagna di vergogna.
A fianco a questo, molto spazio infine i cronisti mondani hanno voluto dedicate all’outfit di Kendrick nell’occasione, ispirato al suo eroe Tupac Shakur: puro street style, parecchio retrò, jeans a vita bassa scampanati e un giubbotto da college della stilista inglese Martine Rose. Quel modo di vestirsi, come un giovanotto sveglio di quartiere, con lo scioglilingua facile e l’andatura guappa, è sembrato un gesto di postmoderna contestazione, al centro dell’evento celebrato davanti all’appena eletto signore della nazione. Alcuni cittadini della quale, prima d’andare a letto, si saranno domandati come sarà l’America (perfino quali saranno i suoi riveduti confini), quale sarà la temperie psicologica, l’andamento delle economie e soprattutto dove sarà finito il vecchio, percepibile senso di libertà degli Stati Uniti, solo tra 12 mesi, quando si giocherà il Superbowl 2026 e scenari e cicli tossici saranno definiti. E con essi la coscienza d’essere americani degli anni Venti, coinvolti, volenti o nolenti, nel misterioso progetto in corso d’opera.