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LaPresse
La finale
Con la vittoria di Trento la Coppa Italia continua a essere la terra promessa della nostra pallacanestro
Dopo i successi di Brescia e Napoli è arrivato quello dell’Aquila Trento, terza cenerentola a diventare regina in una notte di Torino. Sconfitta l’Olimpia Milano
La Coppa Italia continua a essere la terra promessa per i grandi sognatori della nostra pallacanestro. Dopo i successi di Brescia e Napoli è arrivato quello dell’Aquila Trento, terza cenerentola a diventare regina in una notte di Torino. Anche se Trento proprio una cenerentola non lo è, visto che è anche in testa al campionato, segno che il successo di coppa non è un caso, ma il risultato di un lavoro serio costruito in società e in palestra. A farne le spese è stata ancora una volta l’Olimpia Milano che già un anno fa si era arresa sul traguardo della coppa nazionale. La decima di Ettore Messina e la nona della società sta cominciando a diventare una maledizione per Milano che era partita bene mercoledì contro Bologna e sabato in semifinale contro Brescia, ma che poi in finale non è ma entrata realmente in partita, costretta a inseguire fin dal primo quarto.
Messina aveva predicato “Difesa e rimbalzi”. Non li ha avuti. E ha perso anche il tiro: con 1 su 21 al tiro da tre non può andare da nessuna parte. Ma a Milano non ne entrava davvero una. Ci hanno provato un po’ tutti, ma la palla non voleva sapere di infilarsi nella retina. D’altra parte l’Olimpia di quest’anno ci ha abituato a viaggiare sull’ottovolante, passando da clamorosi k.o. (44 punti) a vittorie importanti nel giro di pochi giorni. Una squadra senza equilibrio che evidentemente ha il peccato originale nella sua spina dorsale, in chi dovrebbe dirigere il gioco e i ritmi. “La nostra è stata una finale di una povertà preoccupante, testimoniata dalle cifre. Siamo stati surclassati in ogni aspetto del gioco, c’è stato pochissimo movimento di palla, quando ci siamo procurati un vantaggio poi non siamo andati mai con un passaggio sul lato opposto, accontentandoci di iniziative individuali con poco senso e infatti per la seconda sera di fila abbiamo confezionato un numero di assist bassissimo”, ha ammesso il coach milanese dopo aver fatto i complimenti agli avversari. “In difesa, ci siamo fatti sorprendere quando hanno attaccato i nostri playmaker nelle situazioni di pick and roll. Non abbiamo mai tenuto l’uno contro uno. Eravamo alla sesta partita in 13 giorni. Non può essere una giustificazione ma dopo tante gare di questa intensità ho avuto la sensazione che fossimo proprio vuoti come attenzione, fisicità, intensità. Loro invece avevano entusiasmo, energia e ci hanno attaccato nei nostri punti deboli”.
Ma l’Olimpia non può permettersi di essere vuota. È la squadra con il budget più alto in Italia, ha una rosa che nessuno può permettersi nel nostro campionato. Forse è arrivato il momento di farsi delle domande sulle scelte fatte. Non è possibile che a ogni stagione si debba rifare la squadra.
Trento, da parte sua è stata praticamente perfetta. Ha vinto due partite in volata e popi in finale ha stravinto con il suo coach Paolo Galbiati che ha saputo gestire nel migliore dei modi i suoi ragazzi regalando alla Dolomite Trento una coppa storica. Galbiati arriva da Milano, è un figlio dell’Olimpia dove a livello giovanile aveva guidato allo scudetto l’Under 17. Lui individua il segreto del successo in un particolare che conta molto: “I miei ragazzi hanno fame. Hanno fame, attenzione, sono freschi. Sono freschi mentalmente, una cosa che quando abbiamo costruito questa squadra cercavamo. Volevamo gente con margine di crescita, con disponibilità a lavorare e con fame. Contro l’Olimpia siamo stati notevoli. Li guardavo in campo ed ero affascinato. Resistere a Shavon, LeDay, Mannion, rispettare tutte le regole tattiche decise, senza sbagliare mai. Li guardavo ed ero felice. Rispetto alla partita di campionato era una squadra completamente diversa, non c'erano Mannion e Gillespie...”.
Una finale preparata in modo curioso, come racconta lo stesso allenatore: “Oggettivamente abbiamo fatto un lavoro eccellente. Shields ha finito 3/13. LeDay non lo abbiamo fatto accendere. Si sono sacrificati tutti, c'è stata pressione. Lo dico dal giorno zero, un gruppo umanamente speciale. SLa mattina della finale a colazione non è sceso nessuno, sono arrivati alle 11.45 direttamente in una saletta dove avevamo disegnato un campo per terra. Avevamo fatto un video lungo, tutti sul pezzo, è venuto tutto. Sono felice per loro, per la società, e per tutte le persone che oggi sono contente per noi”. Felicità è vincere con Trento. E chissà che la favola non possa continuare. Certo se Milano non dovesse centrare lo scudetto ci sarebbe una sola parola per definire la stagione: fallimentare.