Bruno Pizzul (foto Ansa)

1938-2025

Il giusto mezzo calcistico nella voce di Bruno Pizzul

Giovanni Battistuzzi

Il telecronista è morto a Gorizia. Tra tre giorni avrebbe compiuto 87 anni. La sua voce è stata soprattutto quella delle partite di una Nazionale forte, talentuosa e mai vincente

C’era un tempo nel quale i calciatori facevano solo i calciatori, ossia calciavano un pallone al meglio delle loro possibilità, c’era meno gente che faceva i guru, il pallone girava meno veloce, anche perché il pallone pesava, mica era la piuma di oggi, e nei campi c’erano ancora le chiazze. Erano gli anni Ottanta che si stavano buttando nei Novanta, sembrano due ère geologiche fa. Non era migliore rispetto al calcio di oggi, solo diverso. Diverso nei ritmi, nelle immagini, nelle voci. E le voci di quel calcio lì, quello dei campioni che venivano in Italia, erano ancora radiofoniche, senza immagini. Le voci erano pastelli con i quali provare a disegnare nella testa i gol. Le immagini arrivavano dopo, nel tardo pomeriggio. Non erano quasi mai in contemporanea le immagini e le voci. Quando erano in contemporanea le immagini avevano una sola voce. Quella di Bruno Pizzul.

 

E’ da parecchio che quel calcio è sparito, c’è chi ne sente la mancanza e chi no: ci si divide sempre in tutto.

 

Da oggi non c’è più nemmeno la voce di Bruno Pizzul perché, a Gorizia, Bruno Pizzul è morto. E almeno su questo non ci si divide. Perché a proposito di Bruno Pizzul c’è una sincera commozione a cuori unificati.

 

Scherzava Bruno Pizzul: “Guarda un po’ te se devo essere io l’unico che fa andar d’accordo le persone. Proprio io che sono un orso”.

 

Si giustificava Bruno Pizzul: “Non ho fatto granché se ci pensi, ho solo dato voce alle immagini”. Non è però semplice dare voce alle immagini. Ancor meno, soprattutto ora, lasciare parlare le immagini e usare la voce solo come guida alle immagini.

  

Non urlava Bruno Pizzul. Non straripava Bruno Pizzul. Non si dilungava e nemmeno eccedeva in sintesi. Il giusto mezzo, la giusta distanza gravitavano nella sua voce in perenne conflitto con la voglia di spaccare tutto, lasciarsi andare al turpiloquio o all’esultanza più sfrenata. Diceva Bruno Pizzul “che a volte il difficile era non dire quello che avrei detto agli amici. Ma è questione di professionalità, di capacità di lasciare in osteria l’appassionato di calcio e portare in tribuna solo l’impiegato Rai, con la sua voce pulita e le buone maniere”.

   

Qualche volta l’uomo che lasciava in osteria riappariva, ma fugacemente. In Corea del sud-Italia ai Mondiali del 2002, mentre le telecamere inquadravano l’arbitro Byron Moreno alzare il cartellino giallo e poi il cartellino rosso a Francesco Totti, per punire una simulazione che nessun altro al Daejeon World Cup Stadium aveva visto, quell’uomo iniziò a sostituirsi al solito Bruno Pizzul. Qualche commento sagace, qualche sbotto. L’arbitraggio appariva a tutti, e non solo agli italiani, un furto. Quando le telecamere offrirono un primo piano di Byron Moreno, Bruno Pizzul usò tutto il suo talento nel trovare il giusto mezzo in otto parole: “Quell’arbitro ha una faccia un po’ particolare”. Si scusò Bruno Pizzul, ma anni dopo. “Non ricordavo di averlo detto. Era difficile in una partita del genere non dare spazio all’uomo dell’osteria. Mi dispiace però avergli dato spazio”.

  

Non serviva scusarsi. Nessuno se l’era presa a male. Anzi.  

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