(Ansa)

Il Foglio sportivo

La vita “pulita” dei numeri 10 nel rugby

Marco Pastonesi

Italia-Irlanda chiude il Sei Nazioni. Nella Nazionale irlandese il problema sembra essere il mediano di apertura Sam Prendergast, l'uomo che sembrava aver risolto il problema della successione di un giocatore fondamentale come Johnny Sexton

Dalle stelle alle stalle. Dall’altare alla polvere. Da talentuoso a sopravvalutato. Nel giro di una settimana, anzi, nello spazio di una sola partita, la sconfitta della sua Irlanda contro la Francia, per di più a Dublino, Sam Prendergast è stato giudicato hype, una montatura pubblicitaria. Eppure, età giovane (22 anni), fisico statuario (1,95 per 91), piedi precisi e mani dolci, finora il mediano di apertura di Leinster sembrava aver risolto il problema della successione di un giocatore fondamentale come Johnny Sexton, 100 presenze e quasi mille punti per i Verdi. Perfino il divino Brian O’Driscoll (“in Bod we trust”) ha chiesto di sostituire Prendergast con l’alternativa Jack Crowley per guidare l’Irlanda nell’ultimo incontro di questo Sei Nazioni, contro l’Italia, oggi alle 15.15 all’Olimpico di Roma.


Dura la vita da numero 10. E bella. Anzi: durissima e bellissima. Il regista della squadra. Mani, per passare il pallone e aprire il gioco. Piedi, per spostare l’azione, lanciare la squadra, esplorare il campo, sciogliere la pressione, liberare la fantasia. Ma anche grandi responsabilità. E se la squadra non gira e perde, fuori. Tanto più che Prendergast si è reso colpevole anche di un peccato imperdonabile: non ha sempre placcato i francesi che lo puntavano. Ed è questa l’accusa spesso rivolta ai creatori del gioco: evitare i contatti più tosti. Il francese Pierre Albaladejo, in tempi già sospetti – erano gli anni Cinquanta e Sessanta –, “al tempo in cui le madri lavavano la roba del rugby, mi diceva: ‘Tu ieri non hai giocato, i tuoi pantaloncini sono tutti bianchi’. Le rispondevo: ‘Non hai che da leggere i giornali’. Noi mediani di apertura eravamo una specie protetta. Vietato toccarci. Quando ci arrivava addosso una seconda linea, avevamo il permesso di farci da parte. C’erano uomini che mi impedivano di placcare il mio avversario diretto. Io lanciavo la difesa collettiva, poi quando avrei dovuto placcare, venivo sostituito da un compagno. Una volta, Galles-Francia, a Cardiff, nel 1960, il mio avversario Richards mi preoccupava. ‘Non hai che da lasciarlo a me’, mi disse Michel Crauste. Per cinque anni tutti i mediani di apertura li ho lasciati a Crauste. A lungo ho creduto che lui, a Lourdes, avesse un negozio di cravatte: quando placcava i miei avversari, sembrava che gli prendesse le misure del collo”.


Per decenni proprio il Galles aveva “la fabbrica dei numeri 10”, direttori d’orchestra, calciatori infallibili, fantasisti geniali, capaci di infilarsi in uno spiffero o rovesciare la frittata o ribaltare la battaglia. Quella volta che Barry John (sapete qual è la differenza fra Dio e Barry John? – si diceva – Dio cammina sulle acque, Barry John ci corre) guidò i British Lions, per la prima e finora ultima volta, a vincere una serie in Nuova Zelanda. Quella volta che Phil Bennett (fu lui ad arringare i compagni prima di un match contro l’Inghilterra: “Guardate cosa hanno fatto questi bastardi al Galles. Hanno preso il nostro carbone, la nostra acqua, il nostro acciaio. Acquistano le nostre case e ci vivono due settimane l’anno. E che cosa ci hanno dato? Assolutamente niente. Siamo stati sfruttati, violentati, controllati e puniti dagli inglesi. E contro di loro giocheremo questo pomeriggio”), nei Barbarians contro gli All Blacks, invece di calciare tranquillamente in touche, ripartì da sotto i propri pali iniziando quella considerata la meta più bella nella storia.


Onori e oneri. In eguale misura. Perché quando il mediano di apertura apre ai trequarti (i cavalieri), forse penalizza gli avanti (i fanti). Quando invece gioca per gli avanti, forse trattiene i trequarti. Perché quando il mediano di apertura calcia direttamente per l’ala, forse non si fida dei centri. Quando invece passa ai centri, forse cade nella banalità. Si racconta che Naas Botha, leggendario mediano di apertura e calciatore sudafricano, leader degli Springboks (e anche della Rugby Rovigo), dopo una partita salì sull’aereo per tornare a casa. Il suo vicino lo fissava senza dire nulla. Botha si spazientì. ‘Lei forse sa chi sono io: Naas Botha, numero 10’. E l’altro: ‘Lei forse sa chi sono io: e anch’io gioco a rugby’. Botha gli domandò: ‘E per quale squadra gioca?’. E quello: ‘La sua squadra. Sono quel povero diavolo che gioca centro’”. E a cui Botha non passava mai il pallone preferendo calciare. Contro Crowley in campo (e Prendergast in panchina), il numero 10 azzurro sarà Paolo Garbisi: “Mi piace avere responsabilità, mi piace scegliere e decidere”. Il solito dilemma: aprire o calciare. E sempre placcare. Anche a parole, non è mica tanto semplice.