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Il Foglio sportivo
Quelli che ridevano di Kompany
Dieci mesi fa avevano deriso il Bayern Monaco per la scelta, oggi tutti hanno cambiato idea. Presto potrebbe vincere il campionato, e sente di poter dire la sua in Champions
Vincent Kompany ha quasi 39 anni: troppi per un calciatore che non vuol trascinarsi in un mesto fine carriera, giusti per chi sceglie di ritirarsi nel momento migliore (ma qui c’entra anche qualche acciacco), mediamente pochi per chi pensa da subito di allenare in grande. Il coraggio, chiedendo ad Alessandro Manzoni il permesso di parafrasare don Abbondio, se uno ce l’ha in campo (e Kompany ne aveva), non lo perde quando finisce di giocare. Subito alle prese con il rischio, fuori dalla zona di conforto di una panchina comoda: è stato simbolo del Manchester City al punto che fuori dall’Ethiad Stadium c’è una statua che lo raffigura, ma cominciare dalle lussuose giovanili del club che è casa sua non avrebbe coinciso con il suo carattere. Infatti, allena già il Bayern Monaco. Prima l’Anderlecht, dove era cominciata e finita la sua vita da calciatore, poi il Burnley. Tenete a mente l’ultima squadra, si incrocia con il Bayern fra un po’ e spiega perché sotto la visiera del cappello Vincent Kompany ride.
La Bundesliga è lì: sei punti di vantaggio sulla seconda, otto giornate alla fine. Per la Champions League il percorso è lungo e gli avversari terribili, ma intanto il Bayern è tra le prime otto, aspetta l’Inter ai quarti, è uscito trionfante dagli ottavi e può pensare in grande.
Kompany ride perché dieci mesi fa ridevano di lui. Eccolo, il Burnley: la società che lo ha lanciato come discepolo di Guardiola, capace di trasformare il possesso di palla in gol e punti (da qui la promozione in Premier League con numeri da record) e che poi ha finito per farlo etichettare come eccessivo integralista quando il confronto con le grandi è andato male, lui non cambiava l’atteggiamento e la squadra, un anno dopo il trionfo, è retrocessa con soli ventiquattro punti in classifica.
Nel dubbio tra ricominciare (era previsto) o cambiare (non subito, nelle intenzioni) si è inserito, senza che nessuno lo potesse immaginare, il Bayern: a fine maggio lo ha chiamato, il club veniva dall’anno in cui il Bayer Leverkusen aveva interrotto la striscia di undici campionati vinti di fila, doveva ricominciare e onorare il 125esimo anniversario. Tornare a vincere con un allenatore che ha perso, una scommessa per tutti troppo forte, tranne che per Kompany e per il Bayern. Ma, dietro, risatine per la scelta oltre il coraggioso.
Breve rassegna dei pareri di quei giorni, conservati proprio perché eccessivi, quindi pronti a essere divorati dai risultati e tirati fuori al momento giusto, questo: “La decisione del Bayern (…) ha spinto molti a mettere in dubbio la sanità mentale di coloro che infestano i corridoi del potere a Monaco” (Guardian); “Bisogna quasi dirlo ad alta voce per crederci” (Bbc); “Sarà ricordata come una delle ricerche di allenatore più strane degli ultimi anni” (The Athletic). Si leggeva persino l’ipotesi maligna del Telegraph: che Kompany non abbia aiutato il Burnley, che con un approccio più pragmatico avrebbe potuto tentare di salvarsi, per mettere in evidenza la sua idea di calcio e sé stesso: “I principi calcistici di Kompany non hanno aiutato il Burnley (…). Alla fine, l’unica persona che ha davvero beneficiato dell’approccio tattico della squadra è stato il suo allenatore”.
Di certo un po’ si è messo anche il Bayern, che dopo aver deciso a febbraio di dividere la propria strada da quella di Tuchel, ha provato a convincere Xabi Alonso, Nagelsmann e Rangnick, ha parlato con Flick, ha offerto 18 milioni al Crystal Palace per liberare Glasner (rifiutati) e poi ha provato a richiamare Tuchel. Solo dopo è arrivato a Kompany, che è stato liberato per 12 milioni, ma il Burnley sapeva di non poter tenere a lungo, pur sperandoci. Colui che è stato una bandiera del City, che un giorno – giura Guardiola – allenerà il City, prima o poi avrebbe salutato per andare a sognare altrove, più in alto. Ne era convinto il presidente, Alan Pace, per il quale avere Vincent come allenatore era “come uscire con la ragazza più bella della città e sapere che probabilmente non ci sono possibilità che ti sposi mai. Ma tutti gli altri vogliono sposarla”.
Non è facile arrivare su una panchina con questo clima, nemmeno passare da una società che non fa un dramma per la retrocessione (il Burnley, appunto) a una che considera due pareggi consecutivi una crisi (il Bayern), che non ha accettato nemmeno l’idea di perdere uno scudetto dopo undici di fila. E nemmeno arrivare in una società di calciatori, come Rummenigge e Hoeness, che vuol dire che avere avuto una intensa carriera da giocatore aiuta, ma non puoi dire “voi non sapete chi sono io”, perché loro sanno chi sono loro. Da pioniere (primo allenatore nero della Bundesliga) ha continuato a sfidare lo scetticismo: la sua squadra continuava con il possesso palla, vinceva ma non sembrava mai troppo efficace. Ogni volta che giocava con il Leverkusen in campionato la scampava, ma sembrava in difficoltà rispetto al gioco degli avversari. Poi è arrivata la Champions, gli ottavi, cinque gol in due partite proprio al Bayer di Xabi Alonso e vuoi vedere che hanno sbagliato tutti?
Vuoi vedere che Kompany, uno che passa quattordici ore al giorno allo stadio e che da Guardiola non ha ereditato solo il fascino per il possesso, ma la cultura dell’ossessione, non era una scelta sbagliata? Non la prima scelta, ingaggiato dopo una retrocessione, ma una buona idea comunque. Una speranza, perché anche la carriera di Klopp è cominciata così (il Magonza era retrocesso un anno prima), proprio in Germania, ma con il Borussia Dortmund, quindi si può. Gli osservatori non si fidano ancora, non lo esaltano perché dovrebbero fare una marcia indietro troppo brusca. Aspettano. Aspetta anche Kompany: presto potrebbe vincere il campionato, sente di poter dire la sua in Champions. E la finale è proprio a Monaco. Sì, ride sotto la visiera dell’immancabile cappellino.