
George Foreman (foto Ap, via LaPresse)
1949-2025
George Foreman, il grande sconfitto che seppe risorgere
A dispetto della forza dei suoi pugni, il pugile americano morto il 21 marzo era un uomo ironico e bonario, innamorato del proprio paese. Andò al tappeto nella storica sfida con Cassius Clay, poi scoprì la fede e si reinventò uomo d’affari
È passato alla storia per una sconfitta, umiliante e sconcertante, che ha finito per oscurare gli innumerevoli trionfi e la forza di volontà con cui ha saputo risorgere e reinventarsi come imprenditore di successo. A dispetto dell’impressionante violenza con cui ha annichilito grandissimi campioni, George Foreman era un uomo ironico, bonario e innamorato del proprio paese, che considerava in primo luogo una promessa. È stato questo il motivo per cui sventolò con orgoglio la bandiera a stelle e strisce quando vinse la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1968, a pochi giorni di distanza dal gesto clamoroso di Tommie Smith e John Carlos, immortalati sul podio a testa china e con il pugno chiuso. L’esultanza con cui si avvolse nella bandiera lo rese un simbolo del nero integrato apprezzato dall’America bianca, agli antipodi da quella delle Pantere Nere, che lo considerarono un servo di chi aveva reso schiavi i loro antenati.
Big George era in realtà indifferente ai grandi mutamenti sociali, culturali e politici di quegli anni, e sembrava che Bob Dylan non avesse mai cantato The times they are a changing: l’America rappresentava per lui la celebrazione delle potenzialità di ogni singolo individuo, e l’emancipazione era affidata alla terrificante potenza che sprigionava sul ring. Lo aveva capito bene Muhammad Ali, che si era rifiutato di combattere in Vietnam, dichiarando “nessun vietcong mi ha mai chiamato nigger”: Big George lo sovrastava per forza, gioventù e condizione atletica e aveva distrutto Joe Frazier e Ken Norton, gli unici pugili che erano riusciti a sconfiggerlo. Il suo coach Angelo Dundee aveva tentato in ogni modo di convincerlo a rinunciare all’incontro, convinto che sarebbe stato ucciso sul ring, ma Ali aveva intuito che l’immagine di Big George avvolto nella bandiera americana sarebbe stata la sua arma vincente. Esultò quando seppe che l’incontro si sarebbe svolto nel cuore dell’Africa nera, e mise in atto una geniale opera di manipolazione e intimidazione psicologica. Cominciò ad allenarsi nelle strade di Kinshasa con decine di bambini che lo inseguivano ritmando il suo nome, candidandosi come campione dei neri in opposizione a Foreman, dipinto come rappresentante dell’America colonialista e ipocrita: dopo aver rigettato il nome da schiavo Cassius Clay era venuto per riprendersi il titolo da un usurpatore yankee che proveniva dal Texas più retrivo e razzista. In molti si convinsero che Big George fosse addirittura bianco, e le cose peggiorarono quando uscì dall’aereo con un pastore tedesco utilizzato dai poliziotti americani e dichiarò che il dittatore Mobutu gli aveva regalato un leone. Sul ring Ali continuò l’opera di demolizione psicologica, incitando il pubblico a gridare Boma Ye / uccidilo, e reagendo con scherno ai colpi di Foreman: “Come on George, show me something. Can’t you fight harder? That ain’t hard. I thought you was the champion. I thought you had punches”. The Rumble in the Jungle fu il capolavoro di Ali, e Norman Mailer scrisse che Foreman cadde al tappeto come “un maggiordomo di due metri e sessantaquattro anni che ha appreso una notizia tragica”.
In quell’occasione Ali interpretò alla perfezione il ruolo di Davide, ma a ripercorrerne oggi il percorso esistenziale risulta chiaro che Big George è stato molto più di Golia: dopo un periodo di profonda depressione ha trovato la forza di risorgere, riconquistando il titolo a 45 anni, dopo dieci di totale inattività. “Ho sconfitto un pugile che poteva essere mio figlio”, disse di Michael Moorer, ma ormai la boxe rappresentava soltanto un elemento di una vita straordinaria: nel momento più buio aveva scoperto la fede e gettato alle ortiche il modello di uomo da temere per l’implacabilità della sua violenza e cattiveria. E’ questa rivoluzione interiore che lo differenzia da campioni quali Sonny Liston e Mike Tyson, rimasti aggrovigliati a quell’immagine e condannati ineluttabilmente alla tragedia. Da allora il mondo ha conosciuto un George Foreman gioviale e ottimista, che non ha mai dimenticato di esser cresciuto nella miseria e ha continuato a interpretare la promessa americana in tutte le contraddizioni: mentre diventava un reverendo apprezzato per i sermoni sul perdono e l’amore fraterno, ha guadagnato miliardi lanciando una linea di griglie per le bistecche. Ha sposato cinque donne dalle quali ha avuto dodici figli, e ha dato il suo stesso nome ai cinque maschi, in modo che fossero certi che era lui il padre: Big George aveva scoperto da adulto che il suo non era l’uomo che l’aveva allevato. Ha sempre ritenuto che il proprio paese fosse il luogo dell’epica contemporanea, e che le battaglie sul ring non fossero diverse da quelle che in America si combattono quotidianamente. L’immagine del campione avvolto nella bandiera stelle e strisce è l’altra faccia della medaglia di quella che lo ha visto accompagnare sottobraccio Ali, mortificato nei movimenti dal Parkinson, a ritirare l’Oscar per Quando eravamo Re, il magnifico documentario che racconta la propria disfatta.
“La sconfitta di Kinshasa ha rappresentato la mia salvezza” ha ripetuto sino a pochi giorni fa, e pensava certamente a quella notte indimenticabile quando ha sorpreso Joyce Carol Oates con la più bella definizione mai concepita sulla boxe: “lo sport al quale tutti gli altri vogliono assomigliare”.