
Foto Getty Images per Fir (per gentile concessione della Federazione italiana rugby)
Sei Nazioni femminile
"All'università mi sento in missione per conto di tutte le rugbiste italiane". Intervista a Emma Stevanin
Domenica 30 marzo l'Italia del rugby femminile gioca contro l'Irlanda nel Sei Nazioni. Parla la mediana d'apertura della Nazionale italiana
Rugby, Sei Nazioni donne, secondo turno: sabato si gioca Francia-Scozia (ore 14) e Galles-Inghilterra (ore 17.45), domenica Italia-Irlanda (alle 16, a Parma e su Rai e Sky). Fra le azzurre, sconfitte contro l’Inghilterra numero 1 al mondo, ci sarà anche Emma Stevanin, 22 anni, padovana di Megliadino San Fidenzio.
Da bambina?
“Timida, non molto atletica, ma solare”.
Da ragazzina?
“Più riservata che timida, comunque disponibile e sorridente, dicono che pensassi più agli altri che a me stessa”.
Da grande?
“Precisa, metodica”.
Da sportiva?
“Sempre, perché lo sport è sempre stato presente nella mia famiglia, ritenuto importante, considerato educativo e sociale. Un anno di ginnastica artistica, sufficiente per dimostrare la mia mancanza di talento, al saggio di fine corso i miei genitori si addormentarono. Passai alla pallavolo, da uno sport individuale a uno di squadra, nella speranza che mi fosse più congeniale, ma neanche lì sembravo portata. Al mio paese non c’erano tante opzioni. Rimaneva il rugby: e qui giocavo in casa. Papà già impegnato come allenatore, mamma sempre coinvolta nell’aiutare a cucinare per i terzi tempi, fratello giocatore, tutti insieme nel C’è l’Este Rugby. Quando fu organizzato un campo-scuola per i più piccoli, mi presentai insieme con altre tre sorelle di giocatori. Qualcuna mollò, qualcuna mollò e ritornò, io restai”.
Da minirugbista?
“Non esistevano ruoli. Si correva, si saltava, si placcava. Si giocava dove capitava. Tutti insieme. Mi è piaciuto”.
Da rugbista?
“Metà campo, a sette. Con funzioni da – diciamo così – mediano di apertura. E a quel ruolo, numero 10, mi sono affezionata. E specializzata”.
Da numero 10?
“Ci vuole lucidità. Sapere, sentire, capire, percepire, intuire che cosa succede di fronte, a fianco, alle spalle. Quando si può giocare con più confidenza e quando si deve farlo con più semplicità. Quando si può accelerare e quando si deve rallentare. Trovare il giusto equilibrio fra le avanti e le trequarti, l’iniziativa personale e la forza delle compagne, il gioco alla mano e con i piedi. Sempre una doppia responsabilità”.
Da esordiente?
“Una delle prime partite con la maglia del Valsugana, in serie A, la prima dopo due anni a singhiozzo per il Covid, contro il Villorba, una delle squadre più competitive. Sentivo la pressione, avvertivo la tensione, mi caricavo di responsabilità. Perché è vero che il Valsugana è un gruppo forte, ma questo può essere un vantaggio e, allo stesso tempo, una pretesa, una richiesta, un onere. Mi si avvicinò Beatrice Rigoni, una delle compagne più esperte e brave, e mi disse: ‘Tranquilla, è solo rugby’. Aveva ragione. Quel ‘solo’ ridimensionò le aspettative”.
Da panchinara?
“Contro l’Inghilterra ho cominciato in panchina. Una posizione più facile, più serena, quasi un sollievo. Ma al calcio d’inizio sale la tensione, perché in qualsiasi momento – quando è, è - devi essere pronta a subentrare a una compagna ed entrare in partita. In quei momenti di tensione, penso sempre alle mie compagne: pensare di giocare per loro mi dà tranquillità e consapevolezza”.
Da titolare?
“C’è tutta l’emozione dell’avvicinamento fino al calcio d’inizio. Ma anche qui non si è mai sole, la forza è quella della squadra. Il momento più struggente è quello dell’inno, ma il più forte è quello che si vive nello spogliatoio, quando siamo soltanto noi giocatrici, quando la capitana spiega e carica, quando le veterane incoraggiano e spingono”.
Da professionista?
“Semiprofessionista. Professionista per come gestisco le mie giornate, fra allenamenti e partite. Ma non professionista perché tutte noi viviamo d’altro, chi studiando, chi lavorando, chi dentro e chi fuori da questo mondo ovale”.
Da studente?
“Secchiona. Linguistico alle superiori, Lingue e Mediazione culturale alla triennale, Lingue alla magistrale. Portoghese, tedesco e francese, oltre all’inglese che so già. Ancora un paio di esami e la tesi – che fortuna: i professori apprezzano il mio impegno sportivo -, se riuscissi a finire entro luglio, poi potrei dedicarmi alla Coppa del mondo con la testa più libera”.
Da padovana?
“Il rugby fa parte della nostra terra e della nostra cultura. Al Valsugana si avverte rispetto, altrove meno. All’università, quando scoprono che gioco a rugby e mi chiedono dove gioco o dove possono vedere le partite, mi sento in missione per conto di tutte le rugbiste italiane”.
Da sognatrice?
“Sono razionale, ai sogni preferisco gli obiettivi, quelli da raggiungere giorno dopo giorno, non da accarezzare di notte. E il mio obiettivo è rendermi disponibile e utile all’Italia. Azzurra. Più azzurra”.