
Nigel Mansell ai tempi della Ferrari (foto LaPresse)
Il Foglio sportivo
L'importanza di essere uno che teneva per Nigel Mansell
Il documentario su discovery che racconta la storia (non solo) motoristica del Leone. E quel cartellone alle prove libere del Gran premio di Imola del 1992
Arriva sempre, quasi sempre, quel momento di stupore e spaesamento nel quale ci si sente, in un modo o nell’altro, dalla parte sbagliata della storia. Arriva quando qualcosa di incredibile che accade ti colpisce meno di quello che dovrebbe, o meglio meno di quanto colpisce chi ti sta attorno. E questo accade solamente perché si aveva imboccato un’altra strada rispetto a quella che era stata imboccata dai più. Di solito ci si accorge di tutto questo nei momenti di diffuso, quasi generale, cordoglio.
Mi accorsi di aver imboccato la strada sbagliata della storia, per quanto piccola e insignificante come può essere piccola e insignificante la storia passionale di uno sportivo da divano, il primo maggio del 1994. Il giorno della morte di Ayrton Senna.
Mi piaceva Ayrton Senna. Non poteva non piacere a un bambino uno capace di fare cose eccezionali a bordo di una monoposto di Formula 1. Soprattutto a un bambino che era cresciuto con attorno la passione per i motori (anche se rally e corse delle auto storiche).
Non sono stato un gran figlio credo. Delle macchine mi è sempre fregato il giusto, anzi niente. Ma tant’è, è un’altra storia.
Quel giorno, quel primo maggio del 1994, quando seppi della morte di Ayrton Senna ci rimasi male. Però sentivo un distacco, pure bello grosso, rispetto agli altri amici. Per loro era morto un idolo, per me solo un pilota bravo. Non ero uno che teneva per Ayrton Senna. Non ero uno che teneva nemmeno per le Ferrari. Ero uno che teneva per Nigel Mansell. E Nigel Mansell, quel primo maggio del 1994 non correva più, si era ritirato. Io comunque ero uno che teneva per Nigel Mansell anche se non correva più, anche se forse l’avevo visto correre solo per mezza stagione due anni prima.
Ero uno che teneva per Nigel Mansell grazie a un cartellone.
Nel 1992 mio padre mi portò a Imola, all’autodromo Enzo e Dino Ferrari per le prove libere del Gran premio di San Marino. Di quel giorno non ricordo le macchine, non ricordo chi fece il miglior tempo – fu Nigel Mansell, c’è scritto su Wikipedia –, non ricordo insomma granché. Ricordo però che mangiai la prima piadina della mia vita, ma di quelle riminesi (una piadina riminese a Imola, sigh) – preferisco quelle ravennati – e che eravamo in tribuna alla Tosa. E soprattutto il cartellone, quel cartellone, quello che mi fece diventare uno che teneva per Nigel Mansell. C’era scritto: “Ayrton ha Dio, ma Mansell ha le palle”. Non capita spesso di leggere “palle”, intese quelle palle, a un bambino.
Credo di essermi convinto che fosse una buona cosa, che Nigel Mansell doveva essere un tipo incredibile se sfidava solo con le palle uno che invece c’aveva Dio dalla sua. Insomma quel cartellone mi convinse, ben più delle parole di mio padre, degli amici, di chiunque avevo conosciuto che mi dicevano che Ayrton Senna era il migliore. Anche se non correva per la Ferrari. Perché all’epoca tenevano tutti per la Ferrari, perché era italiana anche se non aveva piloti italiani. E per Senna. Solo io tenevo per Nigel Mansell. E per un “palle” scritto con la bomboletta spray su un cartellone.
Per decenni mi sono dimenticato di essere uno che teneva per Nigel Mansell. C’ho mai più pensato. Per me la Formula 1 si era trasformata in qualche notizia che per caso ti arriva all’orecchio, a qualche articolo caricato sul sito. Nulla più. Poi sulla app di Discovery appare un’iconcina con scritto Williams e Mansell: uniti per vincere, che è un documentario sulla storia motoristica di Nigel Mansell. E dopo anni mi sono ricordato del mio tifo per il pilota inglese. Ho capito che quel cartellone scritto con la bomboletta spray era stata una sorta di epifania, un’anticipazione di quasi tutte le mie scelte da sportivo da divano che ho fatto poi più o meno consapevolmente. Nigel Mansell, e non lo sapevo, nemmeno lo sospettavo, era l’archetipo delle storie sportive che mi hanno entusiasmato poi. Uno che si è imposto per testardaggine e convinzione, un professionista incredibile capace di mettersi in gioco per davvero, di ipotecare ogni sua cosa, solo per correre con le monoposto, per provare a dimostrare di essere un pilota di valore.
Quello su Mansell è un documentario onesto, pure fin troppo, un ritratto sincero e senza nessun eccesso celebrativo di un pilota che forse era come altri, ma capace di guadagnarsi tutto quello che ha vinto a forza di testardaggine, convinzione. E due gran baffi.