Roberto Donadoni (Ansa)

Il Foglio sportivo

Roberto Donadoni e quei gol vietati

Antonello Sette

L’ex centrocampista azzurro ripercorre con emozione la sua vita calcistica: dagli esordi con un pallone sempre accanto, ai trionfi col Diavolo, fino alle esperienze da allenatore. Un viaggio segnato da passione, sacrificio, valori umani e un legame profondo con Silvio Berlusconi, “il suo presidente per sempre”

Il primo ricordo con un pallone fra i piedi? Non riesco a isolare un attimo. Io sono nato con il pallone accanto. Avevo due anni, o forse tre quando, prima di addormentarmi, lo posavo sul comodino, lo guardavo e gli davo appuntamento al giorno dopo. Io e il pallone. È stato, come si dice, un colpo di fulmine. È stato fianco a fianco a me, sin da quando ho cominciato a camminare. Il compagno fedele che non mi ha tradito mai”. Roberto Donadoni racconta con il sorriso della serenità il suo lungo feeling con l’oggetto dei desideri. Il suo dribbling infinito con il pallone incollato ai piedi. Una lunga corsa oltre gli ostacoli sparsi sui prati della vita. Riuscendo nella rarissima impresa di non andare mai fuori dalle righe. “Il mio primo palcoscenico è stato il campetto parrocchiale di Cisano Bergamasco, il piccolo e dolcissimo paesino in cui sono nato. Lo avevamo tirato su da un pezzo di terreno incolto, con le porte costruite con i pali dismessi della luce, che, a differenza di quelli veri, si restringevano salendo dal basso verso l’alto. C’era un mio quasi coetaneo che nella vita di fuori faceva il fabbro e per lui tagliare i pali della luce e riconvertirli al nostro scopo fu un gioco, per l’appunto, da ragazzi”. Si tramanda che lei fosse il più bravo di tutti…


“Giocavo secondo le regole costituite solo quando noi di quinta elementare giocavamo con quelli di seconda o terza media. Quando, invece, la partita era una sfida fra coetanei, per renderla più equilibrata mi imponevano limitazioni bislacche. Non potevo mai superare la metà campo oppure, quando mi andava di lusso, potevo scorrazzare per il campo intero, ma con divieto assoluto di far gol. Forse quel pegno da pagare alla mia bravura ha condizionato anche la mia carriera successiva. Dribblavo e passavo la palla e di gol ne ho sempre fatti meno di quelli che avrei potuto”.  Poi si trasferì, quando era ancora un ragazzino, a Bergamo... dopo un provino in cui presero quello sbagliato. “Sì. Dal capoluogo della provincia era venuto il maestro Bonifacio. Lo chiamavano tutti maestro perché insegnava ai bambini a scrivere e a leggere, oltre che a tirare calci a un pallone. Era arrivato per osservare da vicino un ragazzo che giocava contro di noi. Prese me e, a neppure tredici anni, mi ritrovai a prendere ogni giorno il treno dei pendolari. Mio padre Ercole non si oppose a quel quotidiano andirivieni. Era un uomo che sapeva cosa volesse assumersi le proprie responsabilità. Per mantenere me e i miei fratelli aveva fatto il contadino, prima di trasportare con il camion materiali ferrosi. Ho corso tanto nella mia vita, ma sono fermamente convinto di non aver fatto neppure la metà della sua fatica. Lui lavorava notte e giorno e a farmi da tutor è stato sin da allora Giorgio, il mio fratello maggiore. Anche il campo di Bergamo era un vero disastro. Ricordo le carriole con cui trasportavamo la terra e la sabbia per coprire le buche. All’Atalanta sono rimasto, fra giovanili e prima squadra, sino a quando, dieci anni dopo, non mi acquistò il Milan, la squadra per cui avevo sempre tifato, sin da  bambino. Sono stato il primo acquisto in assoluto di Silvio Berlusconi, il presidente che avrebbe accompagnato gli anni d’oro del Milan e della mia carriera”.


Cinque scudetti, tre Coppe dei Campioni e due Intercontinentali, tre Supercoppe europee e quattro italiane, di tutto e di più, con lei a imperversare sulla fascia destra. Michel Platini l’ha definita il più grande calciatore italiano degli anni Novanta. “Sono orgoglioso si quel giudizio, ma così forte non mi sono mai sentito. Al Milan Arrigo Sacchi ha portato una mentalità nuova. Ha fatto capire a tutti che cosa significasse essere non solo calciatori di talento, ma anche uomini di spessore umano. Era il suo credo, il suo Karma cui è rimasto sempre fedele. È stato quella la differenza che ha fatto di quella squadra un’armata quasi invincibile. Fabio Capello aveva alle spalle una storia completamente diversa. Era stato un grande calciatore e sapeva perfettamente quali fossero le dinamiche interne a uno spogliatoio pieno zeppo di campioni. Si è portato dietro l’eredità di Sacchi, aggiungendovi molto di suo. Anche a lui devo tanto, a partire naturalmente dalla memorabile Coppa dei Campioni, vinta nel 1994”. 
Fra un Milan e un altro volò in America per giocare con il New York Metrostars, da assoluto pioniere, prima di andare in Arabia Saudita…  “Non c’erano i soldi di oggi, ma già tanta passione. È stata la ciliegina sula torta. Con l’Al-Ittihad vincemmo lo scudetto e la Coppa del Re, lasciandoci per due volte dietro l’Al-Ahli che è l’altra squadra di Gedda. La soddisfazione fu doppia perché la loro era la squadra del principe e dei ricchi. Noi del popolo e della povera gente”. Tornato in Italia, intraprende la carriera, al momento sospesa, di allenatore. A volerla con loro furono inizialmente alcuni presidenti per molti versi tutt’altro che banali… “Dopo Lecco, ho allenato il Livorno e il Genoa di Aldo Spinelli ed Enrico Preziosi. Poi, nel 2006 accettai la sfida impossibile che peraltro, se tornassi indietro, riaccetterei, dell’Italia appena diventata campione del mondo. Uscii di scena dopo che agli Europei del 2008 perdemmo ai rigori il quarto di finale contro la fenomenale Spagna che poi avrebbe vinto il titolo. Poi altre esperienze belle e meno belle: Napoli, il Cagliari di Cellino, il Parma, il Bologna e l’ultima, almeno per ora, a Shenzhen, in Cina. Quella al Parma è stata di gran lunga l’esperienza più bella. Ci qualificammo per l’Europa League, prima che la squadra, inghiottita dai debiti, precipitasse in un colpo solo in serie D”. A lei è capitato di vedersi negata anche la riconoscenza, un sentimento che, in quanto tale, non è mai stato inserito nel testo di nessun contratto, ma che forse dovrebbe avere un valore. Negli ultimi 15 anni il Milan è stato allenato da sei ex calciatori: Leonardo, Clarence Seedorf, Filippo Inzaghi, Cristian Brocchi, Gennaro Gattuso… “Berlusconi diceva che era colpa di Galliani. Galliani l’esatto contrario. Ognuno fa legittimamente le sue scelte. Certo, mi sarebbe piaciuto, ma non recrimino, né ho rimpianti. E questo vale, tale e quale, per tutto il resto”. Lei da cinque anni non siede più su una panchina. In compenso, può contare su amori grandi e consolidati, come sono quelli che la legano a sua moglie Cristina e ai suoi figli, Andrea e Bianca…. “Sono le mie vittorie più belle. Mi chiedo spesso che cosa sarebbe la mia vita, senza Cristina. La risposta è che sarei perduto. Mi commuove per tutto quello che è. Dovrebbe vedere con quanto amore si prende cura di nostra figlia Bianca e quanta luce ce nei suoi occhi quando la guarda. Cristina è riuscita a fare la mamma nello stesso modo anche con Andrea, che è nato da un precedente matrimonio, finito con una sconfitta”. Donadoni dove va il calcio?“Va, come tutto il resto, dove lo porta il vento. La cosa che forse più mi rattrista e mi piace meno è la progressiva perdita di quella umanità che lo rendeva uno sport e un gioco infinitamente diversi da tutta gli altri”. Lei ha parlato al telefono con Silvio Berlusconi una settimana prima della sua morte…

“L’avevo chiamato dopo che era tornato dal San Raffaele. Avevo parlato con la sua segretaria e gli avevo lasciato detto che volevo solo salutarlo. Il giorno dopo mi ha richiamato, con la voce stanca e parole di stima e di affetto che mi hanno fatto venire un groppo in gola. Mi ha detto che era contento che mi fossi ricordato del suo presidente e che avrebbe fatto tutto il possibile per farmi tornare da lì a poco ad allenare. Stava per morire e pensava alla mia panchina. Vede, il politico Berlusconi è stato molto amato e altrettanto odiato, ma è stato il presidente che i tifosi di tutte le squadre avrebbero voluto avere. Unico e inimitabile. Il presidente. Il mio presidente. Per sempre”.

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