Helenio Herrera (Ansa)

Il Foglio sportivo

Barcellona-Inter è la partita del mago Herrera

Francesco Gottardi

“A papà sarebbe piaciuto questo calcio globale, intenso e a tutto campo” dice Helios, il figlio del calciatore argentino. Il racconto della sua doppia anima calcistica 

Notti di sogni e di Coppe dei Campioni. Da sempre Inter-Barcellona è la partita del Mago: la doppia anima calcistica di Helenio Herrera. E oggi anche di Helios. “Sono i club della mia infanzia. L’uno non ha mai smesso di essere nell’aria, nel salotto di casa e nei racconti. L’altro è stato l’unico che ho vissuto in prima persona”, dice il figlio del grande allenatore, verso la supersfida di Champions League. “Non vedo l’ora di essere a San Siro. Peccato che non sia già la finale: mi piacerebbe che a vincere il trofeo sia una delle squadre di papà, a sessant’anni dal suo ultimo trionfo”. Sprazzi di Grande Inter, il gol di Jair che piega il Benfica nel 1965. All’epoca, Helios non era ancora nato. “Il mio primo ricordo? Niente a che fare col calcio. Laguna veneta, isola di Mazzorbetto: il babbo scivola in acqua scendendo dalla barca a remi. E io a guardare mentre lo ripescavano. Altri tempi, aveva già smesso”.


Inizia così una chiacchierata per mondi e generazioni, a tinte nerazzurre e blaugrana. “Questi colori sono un’eccezione”, perché di solito Helios segue il pallone a distanza, con il distacco di chi non gli appartiene. È professore di Economia all’Università di Warwick e un gran giramondo – in questo assomiglia a Helenio: vive a Londra, parla dal Brasile, volerà in Italia già prima del big match. “Avevo già avvertito i miei amici a Milano: se l’Inter passa i quarti, compratemi il biglietto”. Herrera Jr. non ha mai usato i canali del club: preferisce lasciare il cognome al suo posto. “Mio padre mi portò a vedere l’Inter diverse volte”, l’eco del passato. “Entravi, sugli spalti lo riconoscevano e veniva giù lo stadio. Un boato pazzesco, da pelle d’oca. Altrove era diverso: magari capitava che lo salutassero per la strada, qualche autografo al ristorante. Ma quella era casa sua. Io ero piccolino e mi dicevo: ecco chi è papà veramente”. Immagini di quelle domeniche? “C’era Trapattoni che allenava, ogni tanto a fine partita si fermavano a parlare. Ma spesso Herrera usciva dieci minuti prima della fine”, la stessa curiosa abitudine di Peppino Meazza. “Ce l’aveva anche Azeglio Vicini, allora ct della Nazionale: un giorno si sono incontrati andando via dalla tribuna d’onore. Avrò avuto quindici anni. E mio padre gli disse: “Guarda che questo ragazzo qua fra un po’ te lo mando”. Beh. Sentivo una certa responsabilità”.


Helios sorride, ripensando ai suoi trascorsi da calciatore. “Giochicchiavo, ma non sono mai stato una stella. Eppure papà ha sempre creduto che potessi farcela: terminata la sua carriera, iniziò ad allenare me. Un po’ come se fossi una delle sue squadre”. L’Inter in miniatura. “Veniva alle mie partite, anche in trasferta. Se giocavo bene era tutto contento. Altrimenti sai che guaio: a cena non parlava, tutto si faceva grave”. Non dev’essere stato facile. “Il calcio era la sua vita: non conosceva altre vie d’uscita dalla povertà. Questo mi ha insegnato. Forse era amore per me. E forse anche il rigore di una visione unica”. In quegli anni ormai gli Herrera vivevano a Venezia, “lontano dai riflettori. L’Inter è rimasta comunque una presenza fissa: le telefonate degli ex giocatori, dei dirigenti nerazzurri. Facchetti era di casa, Moratti ogni Natale mandava una cassa di champagne”. Eterna gratitudine. “Non solo. La mia famiglia di solito mangiava in sala da pranzo. Però se c’erano i nerazzurri in tv, mio padre si fiondava in salotto e si faceva portare un vassoio: li guardava da solo e prendeva nota. Giocatori, tattiche, schemi. Poi al fischio finale qualche giornalista chiamava e gli chiedeva commenti. Lui era pronto coi suoi fogli. Non bisognava disturbarlo”.


E al Barcellona, invece? “Quello l’ho visto con i miei occhi”, continua Helios. “Per due inverni di fila – 1980 e 1981 – i blaugrana chiamarono Herrera per rimettere in sesto la squadra. Ricordo che andavo allo stadio, mi sedevo dietro la panchina. E seguivo il Barça pure in ritiro. Poi è successo il rapimento di Quini”. Un torbido caso di estorsione, con il capocannoniere rapito dopo una tripletta. “Ero un moccioso fra i grandi: Quini era l’unico che mi considerava, che mi parlava da amico. Per me fu uno choc. E pure per la squadra, che andò in crisi e perse il campionato. Allan Simonsen – altro fuoriclasse di quei tempi – diceva che in Danimarca non rubano neanche le biciclette e qui invece tocca ai giocatori”. La storia di Quini si risolse presto per il meglio, ma lasciò un segno profondo. “Su tutto l’ambiente. Così alla fine non ho mai potuto vedere mio padre vincere”. Non erano ancora i blaugrana di Messi, il més que un club. “C’erano campioni come Schuster, l’anno dopo sarebbe arrivato Maradona. Una grande piazza, ma all’epoca sempre seconda al Real Madrid. E io da adulto al Camp Nou non ho più messo piede”.


Nemmeno stavolta? “Aspetto la gara di ritorno a San Siro. Oggi abito a dieci minuti di bici dall’Emirates e anche l’unica volta che ho visto l’Arsenal è stata a Milano, quest’anno, nella fase a gironi”. Trazione nerazzurra. “Ma non chiedetemi per chi farò il tifo: vinca chi se lo merita. Il Barcellona ha dalla sua il budget, l’Inter il fattore Inzaghi: sta tenendo testa a tutte le big, tranne il Milan”. Giocatore preferito, da una parte e dall’altra. “Yamal è incredibile, un ragazzino fenomenale e già maturo. Tra i nerazzurri dico Barella. E naturalmente Lautaro”. Palla al centro. “Per chiunque vada in finale, ho già in programma una bella festa in casa col proiettore”. Ma il calcio di oggi piacerebbe anche al babbo? “Per certi versi sì. È più globale, intenso, a tutto campo. Però chissà se lui si adatterebbe: ai suoi tempi i giocatori bevevano, fumavano, trasgredivano. Lui li ha messi a bacchetta e li ha fatti diventare atleti veri. Ora sono tutti così, la preparazione psicofisica è di altri livelli. Ecco, sarebbe contento di vedere la direzione che aveva tracciato lui”. Lo immaginiamo ancora lì, corrucciato davanti al televisore. In mano gli appunti e la storia dell’Inter.

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