Fase per fase, ecco quanto costa sviluppare un impresa di successo. Il rischio è ammesso

Maurizio Stefanini

Quanto costa sviluppare una start up? L’esperienza degli operatori suggerisce una prima legge che stima fino a 25 mila euro per la fase detta seed, riguardante appunto il processo di “semina” dell’idea. Poi ci vogliono tra i 500 mila e i 3 milioni di euro per l’early stage, la seconda fase. E dai 3 milioni fino a 5-10 per il development, la terza. Una seconda legge delle start up derivata dall’esperienza indica però che almeno il 50 per cento del capitale che si investe andrà perduto, e per un altro 30 per cento si riuscirà appena a coprire le spese. Sarà il 20 per cento restante a permettere di recuperare tutto, con in più un forte profitto.
Qual è il tipo di investitore che accetta un rischio del genere? O un angelo, o un avventuriero. Infatti, i singoli privati che accettano di correrlo vengono chiamati Business Angels. Magari è “Angelo” un sessantenne che nella start up decide di metterci un Tfr, o il frutto di anni di investimenti azionari. Ma quando la cosa è più strutturata, si parla di “Venture Capital”: un tipo particolare di fondi che investe in imprese ad alto rischio ma anche ad alte possibilità di rendimento perché ad alto contenuto di innovazione tecnologica. E qui interviene un’ulteriore legge: parafrasando le Tre Leggi della Robotica di Isaac Asimov, potremmo chiamarle le “Tre Leggi della Startuppica”, se questo neologismo esistesse. Come in questa rubrica si è già peraltro accennato in passato, bisogna che in questo “Capitale di Ventura” ci siano di mezzo sia soldi pubblici, sia soldi privati assieme.   

 

E’ questo lo stesso modello statunitense, fin da quel Bayh-Dole Act che fu approvato il 12 dicembre del 1980 e che consente il trasferimento del controllo esclusivo di molte invenzioni finanziate dal governo alle università e alle imprese che operano con contratti federali ai fini di un ulteriore sviluppo e della commercializzazione. Università e imprese contraenti sono quindi autorizzate a concedere in licenza esclusiva le invenzioni ad altri soggetti, anche se il governo federale conserva la march-in rights di licenza per l’invenzione a terzi, senza il consenso del titolare del brevetto o del licenziatario originale. 28 mila brevetti si erano accumulati negli Stati Uniti tra 1945 e 1980: solo uno su venti di questi sono stati utilizzati su licenza commerciale. Ben 20 mila brevetti con il Bayh-Dole-Act a regime furono invece emessi dalle università americane solo tra il 1993 e il 2000, consentendo la nascita di tremila start up e portando alle stesse università importanti ricavi. Il mercato selezionò subito fondi che si buttarono sul business, ma il governo federale già nel 1991 creò l’Advanced technology program (Atp), proprio per stimolare “quegli sviluppi di tecnologia avanzata che altrimenti non potrebbero essere finanziati”: ovviamente guardando anche ai possibili interessi della Sicurezza nazionale. Per chi volesse approfondire senza annoiarsi il tema delle interrelazioni tra università americane, ricercatori, industria e militari, potrebbe seguire la nona stagione della nota sitcom “The Big Bang Theory”: quando i protagonisti provano a brevettare un giroscopio, devono fare i conti con l’Aeronautica militare. Lo si vede nella decima stagione, ancora inedita in Italia.

 

Nel nostro paese, la riforma dei brevetti risale al 2006, ma già nel 2002 su iniziativa dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, del Cnr e del governo, nacque “Quantica”: vale a dire il tentativo di creare il primo gruppo di venture capital italiano in un paese dove il livello di ricerca di qualità è alto, ma si traduce poi in articoli piuttosto che in brevetti, come dimostra il terzo posto mondiale per Impact Index cui lo stesso Cnr è riuscito ad arrivare.

 

Dopo un periodo di rodaggio, quando si inizia a capire che l’Italia nel biotech ha forse più possibilità che nel digital, in Cina il guru della chimica Silvano Spinelli trova quel che manca per far funzionare Eos, azienda biofarmaceutica che nel 2014 è stata rivenduta all’americana Clovis Technology per 400 milioni di euro. Un’unica idea di successo ha permesso di recuperare i soldi perduti in altri progetti che non hanno funzionato: un po’ come in quel libro di Gianni Brera sul “Mestiere del calciatore”, dove si spiegava che spesso nelle formazioni Primavera le grandi squadre erano pronte a impegnare dieci ragazzi che non erano destinati ad avere alcun futuro sportivo, pur di far maturare l’unico campione che sarebbe alla gloria pallonara.

 

(foto Guido van Nispen via Flickr)

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