(Foto LaPresse)

Quanto valgono i dati che lasciamo sui social?

Stefania Nicolich

"Questa informazione sarà vera? Dobbiamo leggere molto e usare il nostro pensiero critico per analizzare la realtà". Parla Barzilay, esperto di cybersecurity 

Menny Barzilay è un esperto internazionale di cybersecurity e missionario di innovazione, consigliere di varie startup, imprese, stati e governi in tutto il mondo, con un trascorso nei servizi d’intelligence delle forze di Difesa di Israele. Ma è anche il cofondatore e ceo di FortyTwo Global, cto del centro di ricerca dell’università di Tel Aviv, presidente del consiglio di amministrazione di Cympire, startup di cyber security e cofondatore della startup ALiCE, che applica l’intelligenza artificiale alla cybersecurity. Grazie a SheTech Italia, Barzilay ieri ha parlato agli studenti dell’università Iulm di Milano del delicato tema della sicurezza digitale, di come si sta evolvendo, e di quali siano a oggi le minacce alla nostra privacy.

 

E di come non lasciarsi sopraffare da tutti questi input mantenendo il nostro pensiero critico come guida ultima. Non è solo una questione di hacker, di frodi online, ma anche della nostra quotidianità e dell’uso delle più semplici applicazioni sui nostri dispositivi. Internet è falsamente gratis, in realtà si paga con i propri dati, che le società trasformano in profitti. Tutti abbiamo modalità simili con cui rispondiamo a input esterni, e simili reazioni che si possono prevedere, e perché no, anche manipolare. Basta guardare l’elenco delle trentacinque password più comuni utilizzate dagli utenti.

 

I dati che forniamo non sono neanche troppo privati. La National security agency americana prende le informazioni dalle grandi compagnie e social network popolari, come Google e Facebook. I nostri dati sono facilmente accessibili – per esempio, una persona negli Stati Uniti è stata condannata per un delitto grazie alle informazioni che ha fornito agli inquirenti lo smartwatch della vittima.

 

E tutto diventa smart, grazie allo sviluppo dell’internet of things: c’è l’anello smart che pubblica un tweet quando si muore, la tazza del bagno che registra le nostre attività fisiologiche. Tutte le cose materiali stanno diventando tecnologicamente intelligenti e monitorano tutto quello che facciamo. Collegate insieme, le informazioni fornite possono rivelare più di quello che una persona vorrebbe far sapere.

 

Ma come si fa a capire chi è esattamente il proprietario di quel dato e di quell’informazione? Analizzando in nostri comportamenti al telefono, la frequenza dei messaggi e altre variabili, Facebook può determinare se si sta per lasciare la propria dolce metà, magari con giorni d’anticipo. Ed ecco che il target pubblicitario inizia a spostarsi sui siti d’incontri. Se si condividono i dati raccolti, le conseguenze si intuiscono subito. Strava aveva pubblicato i luoghi in cui le persone correvano, una cosa innocua, ma in realtà si è scoperto che forniva elementi per identificare le basi militari degli Stati Uniti in Pakistan.

 

Non solo vengono danneggiate informazioni sensibili, ma le informazioni pubblicate – che siano vere o no – vanno comunque a manipolare il pensiero delle persone. Tutto sarà sempre di più online e meno offline. E non ci accorgiamo della quantità di informazioni che forniamo di noi stessi e che queste nuove tecnologie collezionano e immagazzinano. Ma la vera questione è poi come sono usate. Già a livello di marketing offline le decisioni della mente umana si predicono e si manipolano con dei semplici prezzi nel menù. Con la tecnologia si amplifica il gioco e diventa ancora più difficile sfuggirgli.

 

Una soluzione, secondo Barzilay, è quella leggere molto e usare il proprio pensiero critico per analizzare la realtà circostante. Porsi sempre la domanda: questa informazione sarà vera oppure no? Per il futuro, avremo bisogno di persone capaci di innovare, e che si impegnino a creare un ecosistema più sicuro.

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