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Nonostante tutto, l'Italia è un paese in cui le startup crescono

Maurizio Stefanini

Così l’imprenditorialità italiana si sforza di non farsi bloccare dall'instabilità politica. I dati del rapporto Survey Innovation 2018

Una impresa italiana su tre collabora con start up, e l’Italia è il paese che con lo Startup Act del 2012 si è dato uno strumento legislativo in materia che secondo un rapporto Ocse può costituire un esempio. Grazie a esso, infatti, le startup che ne hanno potuto beneficiare hanno visto crescere il loro fatturato dell’8 per cento e il loro valore aggiunto del 12 per cento.

 

Il primo dato è una anticipazione del rapporto Survey Innovation 2018 degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy che viene presentato proprio oggi al Politecnico di Milano, durante il Convegno “Imprese e startup nel vortice della trasformazione digitale: alla ricerca dell’innovazione”. Il secondo dato risale invece a settembre, ed è contenuto in un documento della Divisione di politica strutturale (Spd) della Direzione scienza, tecnologia e innovazione (STI) dell’Ocse in collaborazione con Banca d’Italia e Università Sant’Anna di Pisa: “La valutazione dello Startup Act italiano”. Serve però anch’esso come riscontro della situazione nel momento in cui la famosa – e discussa – manovra starebbe per introdurre anche un “Fondo di Fondi” nazionale a gestione pubblica per alimentare i fondi di venture capital che operano nel paese: una “cassa” che era stata annunciata addirittura per il valore di un miliardo, ma che secondo il testo poi effettivamente redatto non oltrepasserebbe invece i 100 milioni.

 

Al di là dell’incertezza politica, però, l’imprenditorialità italiana si sforza di crescere lo stesso. Secondo la Survey Innovation 2018 tre aziende italiane su cinque stanno sviluppando modelli di imprenditorialità interna. Quella “internal venturing”, come viene definita in inglese, che consiste nel creare all’interno dell’azienda “unità autonome” preposte all’elaborazione di progetti innovativi. Questi nuclei possono essere formati dai dipendenti che hanno avuto l’idea, o anche da quelli che più semplicemente vogliono collaborare al progetto. Comunque si tratta di responsabilizzare i soggetti coinvolti attraverso la concessione di autonomia e incentivi, in modo da salvaguardare la capacità di innovazione dai rischi di sclerotizzazione connessi a ogni tipo di burocrazia. Più in generale, il passaggio da una burocrazia pesante, ispirata a quella degli stati, a una struttura più agile, è stata l’essenza di quella evoluzione dell’impresa capitalista che nell’ultimo mezzo secolo ha visto un po’ dappertutto il modello fordiano-taylorista sostituito dal modello detto toyotista. Essenza del toyotismo è l’esternalizzazione di tutto l’esternalizzabile, e in qualche modo la startup economy è cresciuta per il bisogno di esternalizzare anche la ricerca per l’innovazione. Infatti, tipicamente una startup viene venduta nel momento in cui ha realizzato un’idea di successo, in modo da permettere ai loro creatori di dedicarsi a un’idea nuova. Musk docet… L’economista californiano Henry Chesbrough nel 2003 ha coniato il termine di “open innovation”, con un libro pubblicato da Harvard. Il concetto mette le startup in un pacchetto di innovatori dall’esterno in cui stanno assieme a università, istituti di ricerca, fornitori, inventori, programmatori, consulenti. Appunto, un altro dato di Survey Innovation è che una impresa italiana su tre fa ricorso alla open innovation: una proporzione coincidente con quella di chi fa ricorso alle startup. Insomma, l’imprenditoria italiana nella Startup Economy ci è entrata in pieno. Secondo quanto hanno anticipato gli autori del rapporto, ciò indica che “la quarta rivoluzione industriale è entrata nel pieno del suo sviluppo anche in Italia”. “Nonostante il nostro paese rimanga agli ultimi posti in Europa nello sviluppo del digitale, i trend di crescita sull’Innovazione Digitale continuano nell’ascesa ormai da tre anni”.

 

Ma questa crescita è stata possibile, spiega il rapporto Ocse, proprio perché lo Startup Act del 2012 è riuscito a innescare un circolo virtuoso. Definendolo “un utile ‘laboratorio’ per orientare le policy afferenti all’imprenditorialità innovativa in tutti i paesi membri dell’Ocse”, il documento misura “un considerevole effetto positivo sia sulle variabili di input che sulle variabili di output delle imprese beneficiarie”. In particolare, “la policy alle imprese di aumentare il proprio fatturato, il valore aggiunto e gli attivi di circa il 10-15 per cento rispetto alle startup simili che non ne hanno beneficiato, o che ne hanno beneficiato a uno stadio di sviluppo successivo. L’analisi empirica dimostra inoltre che le imprese iscritte hanno una maggiore probabilità di ottenere prestiti dalle banche”.

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