L'ultimo disco di Robertson sembra fatto apposta per quelli lì in poltrona

Stefano Pistolini

Per il manipolo di sognatori è uscito il disco perfetto, uno di quelli che li aprirà in due come agnelli pasquali. S'intitola “How To Become Clairvoyant”, quinto titolo solista di Robbie Robertson, primo che pubblica da 13 anni a questa parte, all'età di 68 anni.

    Sto parlando a quelli lì. Sì, proprio a loro – ci siamo capiti, no? Quelli in poltrona, in certe serate solitarie, vicino all'impianto ad alta fedeltà. Che vogliono stare da soli un paio d'ore. Concedersi quella gratificazione. Che mettono su uno di “quei” dischi, un numero ristretto, e ci sprofondano dentro. Bellissimo, ma pericoloso. E' la tortuosa spirale delle memorie e delle nostalgie. Roba che t'inghiotte. E neppure fa bene. Ma tant'è, siamo gente debole e se abbiamo sentito musica troppo a lungo, fino a permetterle d'avvinghiarsi alla nostra vita, è così. O rifiuti di voltarti indietro, o periodicamente cadi nella botola, rivedi i fantasmi, risenti i profumi, ed è bello, ma ne esci provato. Lasciamo stare: chi sa di cosa sto parlando, ha capito, gli altri procedano pure. Perché per il manipolo di sognatori è uscito il disco perfetto, uno di quelli che li aprirà in due come agnelli pasquali.

    S'intitola “How To Become Clairvoyant”, quinto titolo solista di Robbie Robertson, primo che pubblica da 13 anni a questa parte, all'età di 68 anni. Il manuale per la chiaroveggenza prevede l'aristocratica partecipazione di Eric Clapton, Steve Winwood e Trent Reznor, con Slowhand coinvolto profondamente nel progetto, che dal punto di vista tematico continua quella ricerca culturale sul grande mito americano che da sempre affascina Robertson. E fin dalle prime note il disco si annuncia come una potenza, ma – attenzione – in entrambe le direzioni: quella dell'evocazione e quella della banalità. Perché questo è il fondatore della Band, l'ideologo di quel roots-rock che congiungeva la ricerca al desiderio d'essere veri rocker, insomma che trasformava una banda di musicologi in una band di musicisti. Questo è l'uomo che ha scritto “The Weight”, “The Night They Drove Old Dixie Down”, “Broken Arrow” e non so se nel canzoniere americano del secondo Novecento ci sia repertorio più influente, a parte quello del compare Bob Dylan. Costui possiede la voce più sexy e ammaliante del Nuovo continente, che adesso risolve in un sussurro rauco, dimesso eppure, miracolosamente, ancora intensissimo. E, dal punto di vista compositivo, il disco è notevole e nella prima metà spesso meraviglioso, perché ricama sui territori musicali frequentati da Robbie, il folk/rock rurale e il valzer, con la sapienza di chi lo fa perché vale la pena, non per il vacuo gusto di rifarlo, disseminando riff di chitarra fatti per ricordarci che il il blues è la musica del diavolo. Però, al tempo stesso, nell'uragano emotivo che questo disco provocherà, affiora un versante risaputo, una vecchiezza, un mestieraccio (in fondo la Band non ha sempre giocato la parte dei mestieranti pronti ad assoggettarsi a Dylan?). Sono le parole delle canzoni e lo stile della produzione a provocare questo fastidio.

    Troppa autocelebrazione, che va bene quando nel testo di “Straight Down the Line” scivola la figura di Sonny Boy Williamson, ma prende una brutta piega nell'elogio funebre dei chitarristi scomparsi – Duane, Stevie Ray… – in “Axmen”, o quando rievoca la fine della Band in “This Is Where I Get Off” o il liberarsi della schiavitù dalla droga (ma non da quella di un altro datore di lavoro come Martin Scorsese) in “He Don't Live Here”. Troppo suono datato, anni 80, con quelle batterie elettroniche, quell'eccesso di riverbero, quelle sottolineature strumentali descrittive, troppo “classic rock” alla Daniel Lanois, alla “come eravamo” e “come siamo belli”. Ecco: in questi solchi c'è l'insidia che un bel disco, pomposo e ridondante come questo, non faccia bene, accentui negli ascoltatori più predisposti quel gusto per gli eccessi di sentimentalismo e l'attardarsi in retroguardia. Per carità, affari loro: ma dovrebbero aiutarci a dare uno scrollone al grande Robbie. Per dirgli, la prossima volta lascia Clapton e Winwood ai loro ozi, e le vecchie storie nell'archivio. C'è un mondo vivo, là fuori, che diamine. E' difficile capire perché eroi viventi come te rinuncino a esplorarlo, e passino il tempo al caminetto, a raccontare vecchie storie e a buttare, ogni tanto, uno sguardo allo specchio là in fondo.

    Due righe, poi, per annunciarvi che a giorni esce invece un disco che promette d'essere portatore del verbo nuovo e buono americano: “Helplessness Blues”, sospirato secondo album dei Fleet Foxes, tre anni dopo l'esordio. E' annunciato da un videoclip sontuoso, davvero come un film di Scorsese, che v'invito a vedere subito (“Grown Ocean”). E conterrà quella prodigiosa sintesi di folk, psichedelia, armonie pop, di Van Morrison e Judee Sill, CSN&Y e Morricone, Brian Wilson e Peter, Paul & Mary che ha fatto della band di Robin Peckhold una delle meraviglie del suono Usa. Perché come fece un tempo la band di Robbie Robertson, i Fleet Foxes conoscono la magia per far suonare insieme passato e presente. E così facendo, contribuiscono a farci sentire vivi. Non appesi alle nostalgie.