L'ultimo album di Silvestri è sconfinato
Mi scuso. Il fatto è che negli ultimi anni ho trascurato Daniele Silvestri. Almeno apparentemente – vedremo. Macchissenefrega? Dirà qualche cuore di pietra tra voi.
Mi scuso. Il fatto è che negli ultimi anni ho trascurato Daniele Silvestri. Almeno apparentemente – vedremo. Macchissenefrega? Dirà qualche cuore di pietra tra voi. Sbaglia, ovviamente, perché delle canzoni di Daniele e del lifestyle che suggerivano ci si è cibati parecchio dalle parti della capitale, attorno a fine millennio, prima che i pensieri migrassero angosciosamente altrove. Il fatto è che lui lo faceva un po' per tutti: descrivere come andavano le cose, in sospeso tra una qualche perplessità, un filo di delusione, qualche scetticismo, ma anche il ritmo lento e implacabile applicato al destino di crescere e, visto che insistete, finalmente, di diventare grandi. Una storia locale, con terminazioni nazionali, inspiegabile (diciamo spiegabile al 50 per cento, fuori dal Raccordo anulare) per chi addirittura dovesse osservare da oltre confine. E invece sarebbe stato così facile rispondere a quegli inviati dei quotidiani americani e francesi che s'affannavano a capire che nuova gioventù s'affacciasse nella storia d'Italia. Sarebbe bastato dir loro: sentiti un paio di album di Daniele Silvestri. E' uno intelligente e t'aiuteranno a capire che aria tiri da queste parti, meglio dei saggi scritti dai dotti d'ordinanza.
Poi però, man mano che s'avanzavano i Duemila il nostro rapporto s'è sfarinato, è diventato episodico e, a ripensarci, parve incongruo che alla fine del decennio strano che erano stati i Novanta, noi avessimo investito questo ragazzo del '68 del compito di raccontare anche per noi. Certo, i tormentoni li sapeva fare – “Salirò” – però s'era perso il filo dell'intuizione, la stessa che per un inverno era andata in scena nel localino di piazza Navona dove Daniele, Niccolò, Max, Rocco e gli altri avevano fatto finta di fare una scena, e poi ciascuno s'era quietamente rimesso sulla sua strada, senza troppe sciocchezze e grandeur. Morale: quell'album intitolato “Il dado” ci mancava e periodicamente l'abbiamo riascoltato cercando indizi. Però abbiamo finito per trascurare Daniele, perché lui sembrava trascurare noi, con la miseria di due veri album negli ultimi dieci anni, e perché anche quelle sortite non ci avevano convinto, troppo nervose, innamorate della sua bravura al punto di sconfinare nel virtuosismo e con un eccesso d'amarezza dentro, un sorriso triste che facevano persino venire dubbi sul perché Daniele continuasse qui e non partisse per altre vite.
Adesso è uscito “S.C.O.T.C.H.” e il discorso fa un passo avanti: è il nuovo album di Silvestri, 13 canzoni originali, la cover di “Io non mi sento italiano” di Gaber (“io non mi sento italiano / ma per fortuna purtroppo lo sono”) e la spiritosa mostrificazione della “Gatta” di Gino Paoli che diventa la kitschissima “La chatta” (storia di una chat abbandonata e trasferita 'ncoppa a Feisbùk) con la complicità di Paoli stesso. Ebbene questo disco ritrova la totale difformità di stili e generi che Daniele usava ai tempi migliori, prima di rinchiudersi nelle forme teatrali e satiriche. Si muove con disinvoltura tra ska, vaudeville, rock e ballate downtempo, tra cui un paio splendide, “Acqua stagnante” e “Acqua che scorre” quest'ultima con Diego Mancino. Ma, soprattutto, questo disco si muove prodigiosamente. Silvestri, che in tv abbiamo visto ciancicato e un po' invecchiato, ha ritrovato la risonanza giusta con la musica, prima come linguaggio generale tout court e poi come personale modo di dire le cose. Ha invitato un sacco di amici a suonare – Stefano Bollani, i compari Fabi & Gazzè, Bunna, Raiz e Peppe Servillo – e ha montato uno zibaldone ricco di suoni e quadri viventi, dove torna a essere facile specchiarsi, per le coincidenze, le similitudini, le condivisibili incacchiature e i modi di sorridere.
La sostanza è che Silvestri è tornato ad abitare nelle nostre nuove cuffie ed è un bel testa a testa, perché le cuffie in questione sono prodigiose e ve le consigliamo (quelle progettate da Dr. Dre, le Beats Studio che, se superate l'imbarazzo di andarci in giro per quanto sono grandi, trasformano il mondo). “S.C.O.T.C.H.” è un disco sconfinato, col quale ci accompagneremo per mesi e ne impareremo i versi. Come da ragazzini. E poi avevamo dimenticato di fare, fin quando non ci era ricapitato col “Dado” di Daniele, fecondo Randy Newman di casa nostra.
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