Un po' di malevolenze su John Mayall, Miles e Anthony Braxton, con lieto fine sulle Dum Dum Girls

Stefano Pistolini

Pasticcini pasquali. A cominciare da un paio indigesti. Ovvero: quando un disco, che all'apparenza ti attrae, si rivela così irritante che meriterebbe quell'antico e liberatorio rituale nato allorché eravamo giovanissimi ascoltatori, ma severi ed esigenti: le schifezze si volano giù dalla finestra.

    Pasticcini pasquali. A cominciare da un paio indigesti. Ovvero: quando un disco, che all'apparenza ti attrae, si rivela così irritante che meriterebbe quell'antico e liberatorio rituale nato allorché eravamo giovanissimi ascoltatori, ma severi ed esigenti: le schifezze si volano giù dalla finestra. Ebbene, misteriose suggestioni c'inducono in tentazione nei confronti di uno che avevamo già in sospetto a 18 anni: John Mayall, l'eterno vagabondo col suo carrozzone del brit blues, di solito un'accozzaglia di talentuosi mercenari annoiati, figuriamoci adesso che ha l'età giusta per starsene a giocare a pinnacolo al club del musicista decrepito di Blackpool. Sarà la copertina vintage di questo ennesimo live dell'allampanato fondatore dei Bluesbrakers, “Howlin' At The Moon”, ma ci siamo cascati e l'abbiamo comprato anche se le promesse non erano granché: registrazione dal vivo fine anni Ottanta, effettuata in qualche posto in Ungheria. Erano i nomi dei musicisti a stuzzicarci, Mick Taylor alla chitarra, John McVie al basso a fianco a turnisti sconosciuti. Beh: un disastro. Una band da commedia satirica inglese, quelle sui disoccupati che per sbarcare il lunario si reinventano rockers, un set rimpinzato di luoghi comuni, a partire da un sax flautolento e un chitarrista dal tocco di fabbro, e sul tutto la belante voce di Mayall che, bisogna dire, 40 anni più tardi dalla prima volta che ci sembrò indigesta, ci sembra indigesta allo stesso modo. Una porcheria da bancarella, non fatevi fregare. Non so se il blues bianco di questi tempi goda di accettabile salute, ma certamente non abita più qui.

    Malevolenza numero 2. Siamo sempre stati cattivi ascoltatori di jazz, dispersivi, distratti, incostanti. Però alcune banali passioni abbiamo imparato a coltivarle anche noi. Ad esempio andando ad ascoltare Miles ogni volta che passasse da Roma, in assetto di religiosa adorazione anche quando lui, anno dopo anno, avesse assunto condotte sempre più bizzarre. Ad esempio quella di non suonare più durante i suoi concerti, ma di salire sul palco e di ascoltare semplicemente la sua band che si esibiva, fissandolo con terrore, salvo ogni quarto d'ora picchiare sul Synclavier l'accordo sul quale desiderava si improvvisasse da quel momento. Il tutto con le spalle voltate al pubblico e noi che si annuiva compunti, dicendo che, sì, la sublimazione connessa alla stessa condizione di santità musicale alla quale Miles stava ascendendo, passava anche per quell'austerità, e guai a non capire. Tutto questo per dire che col jazz si è faticato spesso e con buona volontà. Ma di uno in particolare non siamo mai venuti a capo: Anthony Braxton, polistrumentista, compositore e spericolato avanguardista. Troppo avanguardista, per la nostra tenuta. Avanguardista al confine con la sofferenza, sebbene alcune collaborazioni con Chick Corea furono preziose. Ebbene adesso c'è in circolazione anche il figlio di Anthony e si chiama Tyondai Braxton. Ha cominciato in un gruppo sperimentale chiamato Battles e adesso è in proprio, dopo aver perfezionato gli studi alla esclusiva Hartt School di Hartford. Il primo frutto della carriera solistica di Tyondai è  “Central Market” l'album pericolosamente incoraggiato dalla critica colta anglosassone. Tale padre, tale figlio, in declinazione elettronica: percorsi stralunati, minimalismi vorticistici, snodi stravinskjiani, ma anche sciocchezze da film sugli Ufo. Ci risiamo: aleggia l'intellettualismo kitsch e non a caso quest'estate Tyondai Braxton si esibirà in alcuni grandi festival dance, come intervallo cerebrale. Vediamo quanto passerà prima che qualcuno finalmente gli tiri il tradizionale cartoccio d'insalata.

    Infine, la nota lieta: viste in concerto a Milano e ribadite nella loro qualità dall'ascolto del loro recente album. Si chiamano Dum Dum Girls e sono un quartetto tutto femminile messo sotto contratto dalla grande chiesa laica chiamata Sub Po-Records. La formula è semplice ed efficace: una base allegramente punk su cui s'intrecciano armonie vocali degne di quattro Byrds in gonnella, con echi di fun music, di melodie alla Brian Wilson e riverberi alla Phil Spector. Un gioiellino, confermato anche dalle tracce di “I Will Be”, il loro primo disco. Canzoni da due minuti, effimere e piacevoli come in altri decenni furono quelle delle Go-Go's o delle Bangles. La California ha di nuovo le sue elettriche ragazze terribili, che il nome l'hanno scelto parafrasando una canzone di di Iggy Pop, che appunto parlava di Dum Dum Boys. Produzione stringata di Richard Gottehrer, il veterano che mise la firma sui capolavori di Blondie e Richard Hell and the Voidoids.