L'ultimo album degli Okkervil River e un tuffo al cuore

Stefano Pistolini

E' uscito un altro album interessante e ci affrettiamo a parlarvene. E' un prodotto di una sigla già nota da queste parti, ma che nell'occasione si è superata.

    E' uscito un altro album interessante e ci affrettiamo a parlarvene. E' un prodotto di una sigla già nota da queste parti, ma che nell'occasione si è superata, dando vita alla sua opera migliore e a un lavoro di grande complessità. La band si chiama Okkervil River, una delle punte di diamante dell'etichetta Jagjaguwar, una delle più lucide della scena americana. Insieme dal '98 e con base a Austin, Texas, la città più musicale d'oltreoceano, gli OR sono il veicolo espressivo del compositore, cantante e chitarrista Will Sheff che, col succedersi delle produzioni, sta rivelandosi un personaggio d'insospettabile ricchezza di sfumature. Una collocazione a spanne di “I Am Very Far”, il disco degli Okkervil River di cui vi stiamo parlando? In un punto intermedio tra gli Arcade Fire, il Bowie anni Ottanta e Roky Erickson – il mistico pazzo della psichedelia, reduce da due o tre resurrezioni – al cui servizio questa band ha recentemente suonato come gruppo accompagnatore. La performance di Sheff come interprete vocale delle undici tracce di “I Am Very Far” è memorabile, multiforme, difficilmente circoscrivibile: voci diverse, di varia intensità, di maggiore o minore teatralità, asciutte o visceralmente melodrammatiche sui temi gotici che per Sheff sono il giardino di casa, tutte spalmate su una base musicale lussureggiante, con tanti strumenti e ancor più strati di partecipazione di ciascuno strumento all'arrangiamento.

    Si comincia con “The Valley” e la temperatura è subito visionaria: si parte per il viaggio nella Valle dei morti del rock'n'roll e il percorso di Sheff risente dei suoi trascorsi da critico cinematografico (e di commesso in un videoshop): visioni psichiche, una voce narrante d a una colonna sonora e lui che di volta in volta assume personalità diverse, ciascuna col suo timbro vocale e la sua storia da raccontare. Ci sono impronte gospel, armonie da vaudeville, rock orchestrale con echi del Novecento e un titolo che spunta a un certo punto della scaletta, “We Need A Myth”, che racchiude il senso di questo disco, che sta nella capacità e nel coraggio di tornare a pensare in grande, senza falsa modestia e col gusto del colossal, come in una saga di Hollywood a base di incendi, eroi maledetti e cavalieri solitari. Un album importante che richiede mobilitazione intellettuale, creato da un romantico narcisista che solo ora sta esprimendo il suo enorme potenziale (e se volete seguire le tracce di Sheff, sappiate che oltre che come leader di Okkervil River, agisce anche come contitolare di Shearwater, affascinante progetto parallelo condiviso con Jonathan Meiburg, un altro fondatore degli OR e anche lui laureato in letteratura, con ambizioni critiche e master in religione). Dopo aver guardato avanti seguendo i deliri di Will Sheff, un'occhiata indietro verso due uscite di puro culto. Prima di tutto Booker T. Jones, l'uomo che ha fatto dell'organo Hammond l'arma impropria del soul. Tornato a un'attività solistica degna di questo nome, pubblica ora un “The Road From Memphis” che è tutto un programma, a cominciare dal gruppo che ha scelto per sostituire i suoi dissolti MG's, ovvero i Roots. Disco quasi interamente strumentale, dominato dai tasti bianconeri di Booker, coi Roots che giocano a rifare il suono di un telefilm poliziesco anni Settanta e una serie di gustose apparizioni: Jim James dei My Morning Jacket, un po' imbarazzato dai riff sincopati di Booker T., un duetto in “Representing Memphis” sulla cui invenzione ci sarebbe da indagare, quello tra Sharon Jones, regina del r'n'b brooklinese e Matt Berninger che invece guida The National, orgoglio indie-rock dello stesso quartiere (l'accoppiata funziona a meraviglia) e infine un Lou Reed da antologia convocato a fare il crooner nella conclusiva “The Bronx”, apologo del quartiere fatto a saliscendi.

    Infine l'ultima notizia en passant, anche se per alcuni costituirà un tuffo al cuore: con un album nuovo di zecca, riaffiorano i Cars di Ric Ocasek (titolo: “Move Like This”, copertina molto retrò) in formazione originale, fatto salvo quel Benjamin Orr che, oltre a essere una personalità determinante nella chimica della formazione, è passato da tempo a miglior vita. Gli altri ci sono tutti, c'è la vocetta singhiozzante di Ocasek, c'è la solita valanga di sintetizzatori e ci sono una decina di canzoni che ricominciano esattamente dove 25 anni orsono la storia del gruppo si è fermata.

    Che dire? Boh, difficile. Ocasek aveva più volte detto che non l'avrebbe mai fatto, infatti eccolo qui. L'album è passabile quanto popolato di spettri, loro e nostri. La necessità è inesistente, ma il fenomeno non è casuale e minaccia di trasformarsi in un'inondazione. Perciò benvenuti vecchi e scombinati anni Ottanta? Manco per idea, per come la vedo io. Il gioco è un altro e, mi dispiace per l'allampanato Ocasek – che un tempo ci parve un astuto innovatore – è molto meglio di questo.