Il nuovo album di Vedder e la saga del disco di Ben Gibbard

Stefano Pistolini

Magnifico esempio di narcisismo, magniloquenza e innocenza, Eddie Vedder – voce ed eroe dei Pearl Jam – ha pubblicato un album per sola voce e per ukuelele, il minimale, simpatico, innervosente strumentino a corde hawaiano.

    Magnifico esempio di narcisismo, magniloquenza e innocenza, Eddie Vedder – voce ed eroe dei Pearl Jam – ha pubblicato un album per sola voce (la sua, mica una qualsiasi – quella che più di qualunque altra, seppellito Cobain, fu investita della carica di voce di una generazione, quella attorno ai 40, adesso) e per ukulele, il minimale, simpatico, innervosente strumentino a corde hawaiano, che a prima vista pare più un giocattolo che un degno coprotagonista di un big della musica contemporanea. Mettetevi l'anima in pace: in queste 16 tracce non c'è altro e dovete perciò decidere se può bastarvi per trascorrere 35 minuti del vostro tempo. Noi propendiamo per il sì, ed ecco i motivi. Prima di tutto, al timbro baritonale di Vedder noi non siamo indifferenti fin dai suoi esordi e ci induce in commozione subito, sia che guidi la corazzata elettrica dei suoi soci di Seattle, sia che, sempre più spesso, adesso che è un uomo fatto (sono 47), si avventuri in esperimenti solistici, come la magnifica colonna sonora di “Into The Wild” e adesso questo lavoro strano che finge di presentarsi in termini casual, ma siamo invece convinti che contenga più ambizioni e coinvolgimento di quanto l'introverso, emotivo Eddie lasci trapelare.

    L'idea di partenza è semplice e surreale: abbinare la voce più melodrammatica del rock, quella di un approccio tutto a togliere alla vita, orgoglioso e mite, scontroso e malinconico, isolato e perdente, al suono da cartone animato, da cornetta telefonica, dell'ukulele. Inutile dire che l'accoppiata alla fine fiorisca, anche perché, a parte a un paio di amicali controcanti, Vedder gestisce il tutto in proprio, mugolii e sonaglierie, canta e suona, e suona con grazia e canta magnificamente, in un profluvio di scale diminuite, di amori che vanno a rotoli, di solitudini da celebrarsi stesi su un prato, ululando alla luna e, appunto, pizzicando l'ukulele. La domanda è: c'era bisogno di farci un disco? Lo strumentino è un pretesto sufficiente per dedicargli un album? Non è roba da festa con gli amici? Non è troppo narcisismo? Tutte questioni legittime, che non spostano il fatto che “The ukulele songs” piacerà ai fan di Vedder, incuriosirà parecchi ascoltatori di passaggio e forse adempirà perfino allo scopo che l'artista sostiene sia la scintilla del tutto: convincerci che con uno strumento da quattro soldi, una voce e la voglia di cantare, si possa diventare democraticamente tutti musicisti. Tesi che non sottoscriviamo, alla quale non crediamo per niente e che, anzi, vorremmo scoraggiare, in questa terra di provinanti del prossimo X Factor.

    Ma visto che la prova vocale di Eddie Vedder in compagnia della sua chitarrina resta di gran classe, rendiamole omaggio paragonandola a un'altra voce del rock americano che da anni gode di un seguito robusto e fedele. Il nome è Ben Gibbard, la sua provenienza è lo stato di Washington (e dove, altrimenti?) e la sua band si chiama Death Cab for Cutie, da noi poco conosciuta, ma nel grande paese habitué dei grandi festival o dello show di David Letterman. Vengono dalla cittadina di Bellingham, sono insieme dal '97, con la solita procedura che va in scena da quelle parti: una serie di gruppi che non funzionano e poi, secondo la teoria del “dream team”, i membri più dotati che finiscono per mettersi insieme e unire gli sforzi verso il successo (c'è una filmografia di Cameron Crowe a raccontare come vanno queste cose, sebbene in versione zuccherina). L'incontro decisivo per Gibbard è stato quello col chitarrista Christopher Walla e dal sodalizio è nata questa formazione che prese il nome da una canzone della Bonzo Dog Doo-Dah Band, antichissima sigla del rock alternativo britannico. Presto, con l'album “Transatlanticism”, i Dcfc fanno il salto di qualità e quantità, diventano un gruppo da classifica, diventano una tardiva ma funzionale icona di un grunge annacquato. Adesso, però, una decina d'anni più tardi, sono ancora qui: stessa gente, un po' invecchiata, stesse ambizioni, ma nessuno slancio e aspettative ormai logorate dall'esperienza. “Codes and Keys”, il disco col quale si ripresentano sul mercato, è stato bistrattato dalla critica d'oltreoceano che ha affibbiato ai titolari l'etichetta di sopravvissuti. La storia della sua registrazione è una vera saga nella fatica della non ispirazione. Eppure, ad ascoltarlo con tranquillità, non è male per niente, per quanto pecchi di troppi artifizi e dei vizi di chi ormai paga per avere, anziché faticare (il suono non ci piace? Cambiamo studio). Resta a galla soprattutto una cosa come spesso capita da queste parti: una gran voce. Intatta e splendida, la vocalità di Gibbard – che è un incrocio tra Michael Stipe e il nostro amico Vedder – vale ampiamente l'ascolto delle canzoni, in particolare della struggente title track. Almeno, così funziona per noi, che da sempre non sappiamo resistere alle stregonerie e alla fascinazione di queste grandi, ruggenti voci bianche, che sgorgano dallo stomaco dell'America.