Il bestiario umano di Bruce Springsteen rivive oggi in “The promise”

Stefano Pistolini

Dopo il profluvio di sentimentalismi coincisi con la scomparsa di Clarence Clemons, sassofonista, entertainer e totem della E Street Band di Bruce Springsteen, abbiamo letto con piacere le parole che lo stesso Boss ha speso per salutare il suo amico.

    Dopo il profluvio di sentimentalismi coincisi con la scomparsa di Clarence Clemons, sassofonista, entertainer e totem della E Street Band di Bruce Springsteen, abbiamo letto con piacere le parole che lo stesso Boss ha speso per salutare il suo amico, nel suo elogio funebre. Springsteen, con un altro di quei suoi guizzi intellettuali ai quali non impareremo mai ad abituarci, ogni volta riducendoci a considerarlo un tipo prevedibile, ha detto: “Me ne stavo a sentire quelli che parlavano di Clarence. Guardavo questa foto di Scooter e del Big Man, come ci chiamavano certe volte. Si vedeva Clarence che ammirava i suoi stessi muscoli e il sottoscritto che ci si sdraiava sopra”. Poi, con umorismo, Bruce racconta che tipo fosse il suo amico. L'ultima volta che i due hanno viaggiato in aereo insieme, dopo l'ultimo concerto dell'ultima tournée, Big Man disse al Boss: “Siamo sulla buona strada per fare qualcosa di importante”. Springsteen, anche in questa occasione ha saputo essere all'altezza. Motivo per cui abbiamo recuperato una sua cosa che avevamo finito per dimenticare.

    Sei mesi fa, infatti, ha visto la luce un doppio e corposissimo album di reliquie del Boss, dal titolo “The Promise”. Musica che riemergeva da trent'anni prima, esattamente dal momento più affascinante nella carriera del cantore del New Jersey. A partire dal 1978, si era infatti consumata la lunga parentesi oscura nella sua parabola: dopo il botto di “Born To Run” Springsteen era entrato in una frizione rabbiosa con il suo management e d'altro canto non riusciva a uscire dall'impasse di un exploit così clamoroso. Dopo tre anni di faticose liti e ripensamenti, finalmente il Boss pubblicava quello che resta il più letterario e denso dei suoi album, “Darkness On The Edge of Town”, luogo musicale dove all'ottimismo ormonale e all'istintivo sciovinismo dell'artista, subentra una riflessione potente e chiaroscurale, segnata di pessimismo.

    Per molti “Darkness” è il vero album definitivo di Springsteen, quello che distilla la sua poetica e la trasforma in genere, quello che trasforma il suo autore in eroe culturale a tutto tondo, in discendente di Fitzgerald e Faulkner, nel nuovo interprete letterario dello spirito americano assoluto. Il fatto era che, nell'interminabile procedimento di preparazione dell'album, la E Street Band aveva accumulato qualcosa come 70 canzoni scritte dal leader nel tentativo di focalizzare la realtà sociale dei meno fortunati d'America. E questa è la genesi di “The Promise”: un album con 21 delle canzoni che nella prima occasione, 30 anni fa, non riuscirono a entrare nell'album e poi vennero superate dalla foga compositiva del Boss.

    In una bella video-presentazione del disco Springsteen spiega che questi pezzi non furono scartati per motivi qualitativi, ma in quanto non erano del tutto in linea con l'intendimento del lavoro: è il caso, ad esempio, di “Because the Night”, che il Boss avrebbe regalato alla semi debuttante Patti Smith, o di “Fire” che le Pointer Sisters avrebbero trasformato in una hit. E infatti l'impatto qualitativo dell'intero album è sbalorditivo: si torna sul rapporto tra Springsteen e il rock'n'roll originale, in pezzi come “The Brokenhearted” o “Outside Looking In”. Riaffiorano le sue ballate al profumo di ottani e american horses in “Save My Love” o nell'ispirata “Gotta Get That Feeling”.

    E torna la tribù degli spostati che popola la narratività di Springsteen dagli inizi: gli angeli dell'Hot rod, i batteristi pazzi, i vagabondi, gli indiani smarriti. Un bestiario umano che era stato abbandonato nel limbo delle canzoni non pubblicate e che in “The Promise” rivive, proprio mentre la banda del Boss perde un altro dei suoi capitani. Anche chi non è mai stato un fan del Boss, non resta indifferente a questa capacità di grandezza. Lui ha sempre detto di essere un capo malgrado se stesso e le sue ritrosie.
    Pubblicare adesso il vecchio “The Promise” e quella capacità di spendere prima di tutto ironia nel ricordare il suo caro amico, mettono il sessantaduenne Bruce Springsteen, davanti ai nostri occhi, in una posizione di estrema dignità.