Ascoltare per due minuti Giovanna Marini e riscoprire il misterioso contatto con la musica

Stefano Pistolini

In una bella mattinata di mezzo luglio, una circostanza mi porta a imbattermi in Giovanna Marini. E' venerabile, intelligente e umana. Lungo tutto il corso dell'incontro tiene una chitarra in grembo, senza suonarla.

    In una bella mattinata di mezzo luglio, una circostanza mi porta a imbattermi in Giovanna Marini. E' venerabile, intelligente e umana. Lungo tutto il corso dell'incontro tiene una chitarra in grembo, senza suonarla. Così, quando stiamo per salutarci, prendo coraggio e le chiedo se suona “Pasolini”, che da quando l'ho tardivamente riscoperta (nel “Fischio del Vapore”, che ha fatto con De Gregori nel 2002) mi s'è fissata in mente, epitome della congiunzione tra musica, vita e cultura. Giovanna non si fa pregare e intona il pezzo, che per intero s'intitola “Lamento per la morte di Pasolini” che, pochi giorni dopo la tragica morte di Pier Paolo, assassinato nella notte del 1 novembre, lei scrisse nel dicembre 1975, prendendo lo spunto da un canto religioso extraliturgico, quell'“Orazione di san Donato” che il ricercatore Cesare Bermani aveva individuato e registrato il 7 febbraio 1965 a Zaccheo, frazione di Castellalto, a Teramo.

    Giovanna canta una strofa: “Persi le forze mie persi l'ingegno / la morte mi è venuta a visitare / ‘e leva le gambe tue da questo regno' / persi le forze mie persi l'ingegno. / Le undici le volte che l'ho visto / gli vidi in faccia la mia gioventù / o Cristo me l'hai fatto un bel disgusto / le undici volte che l'ho visto”. Che meraviglia e commozione! Ci siamo colpevolmente dimenticati, anzi, abbiamo sottovalutato e rimosso, la profondità e l'incisività, la complessità e l'originalità con la quale la musica si può connettere alla nostra vita, la può penetrare, districare e descrivere. Quei due minuti di storia che Giovanna Marini mi ha graziosamente accordato, con la sua voce e la chitarra che imparò a pizzicare al cospetto di Andrés Segovia, sono bastati a risvegliare il contatto con la musica, che resta uno dei più misteriosi e affascinanti che mi sia capitato di scoprire.

    Una bella voce femminile ne chiama un'altra. Se siete innamorati di New York e vi piacerebbe ascoltare un disco capace di evocarne le atmosfere, “Last Summer” è il titolo giusto. Ha dentro l'urgenza, la qualità, lo slancio, le idee e le opportunità di una porzione di vita trascorsa nella Grande Mela. Costituisce l'esordio solistico della 35enne Eleanor Friedberger, chicagoense non alle prime armi, dal momento che in compagnia del fratello Matthew è titolare di nove album sotto la sigla The Fiery Furnaces, bizzarro ensemble indie, la cui prima figurazione può essere quella della genialità e la seconda quella della bulimia, un concentrato dello scibile musicale, con annessi elementi di teatro, cinema e musical, digerito e riproposto sotto forma di zibaldone eclettico – da quelle parti la buonanima di Captain Beefheart non è passata invato. I dischi di Fiery Furnaces sono appaganti e difficili da consumare. Invece in “Last Summer” Eleanor ha scelto la strada della semplicità, e ha camminato nel solco dei grandi dischi di canzoni femminili anni Settanta, Carol King e Joni Mitchell al loro meglio. “You know I do my best thinking when I'm flying down the bridge”, canta ironicamente Eleanor Friedberger in “My Mistakes” che apre l'album: so che faccio i migliori ragionamenti mentre volo giù da un ponte. Molta classe, determinazione, un esordio radioso, colorato ed estivo, idea che frullava da un pezzo nella testa di Eleanor, se è vero che diversi anni orsono la sentimmo cantare: “Dovremo attendere fin quando arriverà giugno / Io poi sto aspettando da non so quanto / ma adesso finalmente sembra che stia per cominciare / giuro, giuro che saprò fare la mia parte”.

    Infine, dall'adorata etichetta northwesterner Sub Pop arriva un piccolo, valoroso disco da segnalare: l'area è quella dell'effimero sottogenere chillwave, emerso nel 2009 e rapidamente inabissatosi tra le mode di breve durata. Invece fin da questa primavera il fenomeno – che si nutre di elettronica anni Ottanta, ritmiche lievi e spezzettate e nostalgia tematica – s'è messo i pantaloni lunghi e i suoi continuatori immettono sul mercato dischi di spessore superiore agli esili esordi. In passato vi abbiamo segnalato “Underneath The Pine”, secondo lavoro di Toro y Moi. Oggi suggeriamo “Within And Without” del solitario musicista della Georgia Ernest Greene, sotto la sigla Washed Out, ossia “slavato”. Grandi atmosfere, rarefatte e sottili. Slavate, forse, nel senso di un gusto per sfumature di cui s'è smarrito il segno, a meno di non avere la fortuna d'incontrare Giovanna Marini.