E' l'estate del grande riuso: dalle cover band di Vasco ai remix di vecchissimi successi

Stefano Pistolini

L'estate del grande riuso. Prendiamola così, senza drammatizzare. In una stagione di stanchezza musicale italiana, dalla quale affiorano solo le tournée dei veterani, si delinea un fenomeno dal “basso”.

    L'estate del grande riuso. Prendiamola così, senza drammatizzare. In una stagione di stanchezza musicale italiana, dalla quale affiorano solo le tournée dei veterani, si delinea un fenomeno dal “basso”, che nasconde un ragionamento sugli sviluppi musicali da analizzare in un prossimo futuro. Due esempi. Primo caso: esco una sera in Maremma e m'imbatto in una piazza di paese piena di gente. Si fa musica, c'è un bel palco, un impianto luci potente e un po' cafone, una decina di tecnici in uniforme che mettono a punto le ultime cose prima del concerto. Scopro che quelle 2.000 persone si sono radunate niente meno che per una serata di cover: la band che si esibirà si occupa solo e soltanto di Vasco Rossi. Un pubblico così folto e partecipativo, si è raccolto per celebrare il rocker padano, in assenza del protagonista in questione. Ma l'entusiasmo c'è ed è palpabile. Ergo l'evocazione, la finta, la messinscena e la voglia di divertirsi, hanno la meglio sull'emozione del contatto diretto, con quello che una volta si chiamava “l'evento”. Vasco non c'è, ma poco male: c'è la sua ripetizione, la sua replica, la sua riproduzione e può bastare, perché la tv e la rete ci hanno insegnato a credere nel potere dell'interattività. Come dicevo, resto sorpreso dall'impianto scenico di quel gruppo, che rivela come a tirare avanti di sponda, a fare gli specchi viventi, i mezzi sosia, le imitazioni credibili, c'è di che star bene, di fare solidamente due soldi. Questo show evocativo traversa la penisola notte dopo notte e pare ce ne siano almeno una dozzina dello stesso formato e qualità che fanno altrettanto.

    Chiamiamolo “l'indotto di Vasco”, che secondo me, da figlio del popolo e delle balere, ne sarà contento e fiero. Ma le scoperte continuano: scopro che nella cover band in questione milita addirittura un membro della formazione originale del Blasco, e che se lì era un modesto gregario, qui, stasera, è trattato da star, e simpaticamente ci si atteggia, evocato dal cantante, che ha il cappelletto calato sulla testa e canta un po' ingobbito come il Vasco originale. Siamo in presenza di un fenomeno di germinazione spontanea, andate e moltiplicatevi, tutti uguali, e sbarcate il lunario, rifacendo quello che fa l'“originator”, che come dimostra questo spiazzo davanti alla chiesa, alla gente piace, e basta, perché i grattacapi stanno altrove. Scoperta finale, linguisticamente la più interessante: questa non è una banale cover band di Vasco Rossi, che si guadagna ingaggi risuonando “Albachiara”. Questo è un progetto più raffinato: è un gruppo che esegue canzoni proprie, ma scritte e suonate “nello spirito di Vasco”. Musica vaschiana, rossiana, e forse perfino rossiniana, a giudicare dall'entusiasmo dei convenuti. Un repertorio ombra, un'ispirazione eco, la moltiplicazione di un'atmosfera, di uno stile, di uno stato mentale, come si diceva una volta. Dentro e attorno al mondo di Vasco, nello stesso tempo. Perfino con una sensazione di orgoglio nazionale.

    Caso due: cercate in radio qualcosa di meno stantio delle stazioni di tormentoni implacabili. Insomma, provate su una frequenza di sana dance, e scoprirete che i brani che vanno per la maggiore hanno titoli familiari alle vostre orecchie da intenditori: “Respect” e “Pata Pata”. Si proprio quelle di Aretha Franklin e Miriam Makeba. Ma in due versioni “remix 2011”, che potrebbero far accapponare la pelle ai puristi, tanto più dal momento che contengono le voci originali delle due venerabili interpreti. Ma qui siamo in presenza di due trattamenti-martellone, a base di loop, crescendo, climax e superbassi, a firma di due sigle misteriose: una Acida Corporation tricolore per “Respect” e dei tipi austriaci di Graz che agiscono sotto il nome Tim Tim per “Pata Pata”. Beh, una cosa va detta: questi remix, riusi, questa roba resuscitata, trascinata a nuova vita, risvegliata sulla pista di una disco o nel calore di un'estate variabile, funziona, è divertente e permette di avviare quel ragionamento che l'ottimo Simon Reynolds ha messo in circolo nel suo nuovo, altissimo saggio “Retromania”, che v'invito a consultare: seppure tutto è già stato suonato, non è detto che quella delle “cose” nuove debba essere, momentaneamente, la strada da percorrere. Usare la grande musica come materia prima e mettere le mani nella sua natura. Potrebbe essere questo il “rock”, per un po'. Tanto le cose cambiano e dopo un'estate ne arriverà un'altra. Da far suonare decentemente.