I Poveri cristi e le Strisce di cinque studenti napoletani

Stefano Pistolini

Ohi ohi, finalmente, tardivamente, è saltata fuori la nostra personale canzone dell'estate e non vediamo l'ora di condividerla e di farla vostra.

    Ohi ohi, finalmente, tardivamente, è saltata fuori la nostra personale canzone dell'estate e non vediamo l'ora di condividerla e di farla vostra. Loro si chiamano “Le Strisce”, cinque studenti napoletani che hanno messo su una band della quale si dice gran bene già da tempo e che a fine 2010 ha pubblicato un buon album intitolato “Torna ricco e famoso”. Adesso però se ne escono con un singolo che ha i crismi del disco giusto, quello che produce il sospirato salto di qualità e che, come per miracolo, sveglia le orecchie attorno e ti attira addosso l'interesse del mondo – beh, almeno di un qualche piccolo mondo.

    Insomma “Le Strisce” hanno fatto la loro gran canzone di svezzamento e noi ce la consumiamo in repeat nell'autoradio, perché l'idea è semplice quanto efficace e l'esecuzione è appassionata e travolgente, a metà tra Negramaro e Dexy's Midnight Runners, sempre che quel punto virtuale possa esistere. Pensare che “Le Strisce” ci avevano già provato, ma dalla parte sbagliata e gli era andata male e una loro candidatura a partecipare a Sanremo s'era incagliata, a un passo dal traguardo. Alla fine la svolta ha il nome di questo singolo: “Londra”, storia di un sogno, di una chimera dolcemente intergenerazionale: “Mi ricordo le sigarette fuori la finestra / e la testa, che immaginava solo un'esistenza diversa, lontano da questa città, che lei detesta / lontano dalla solita merda / e tu sei lì, col mal di testa / e con tua madre che ti manifesta, in casa / e cosa dovresti fare della tua vita esplosa in mille pezzi / e cosa ne pensi di quello che succede intorno a te / sapessi quanta gente al mondo c'è / chissà che aria tira lontano da qua / chissà che gente si incontra d'estate a Londra”. Fino a esplodere nel ritornello: “Londra sono pronto, sono pronto / Londra sono pronto, sono pronto a fidarmi di te / presto Londra fammi uscire”.

    Capito? Alla fine, mentre ci si sente soffocare dalla mesta routine della provincia italiana, il cielo è rotto dalla biblica visione: le solite, vecchie, mille luci di Londra, la città dove i sogni divengono realtà. Pensavamo fosse una favola superata, adatta a chi adesso ha i figli grandi. Invece questa torch song delle valorose Strisce, aggiorna quell'innocente transfert, in groppa al quale capita perfino di diventare grandi. Sentitamente ringraziamo e cerchiamo perfino di colonizzare i più piccoli (con risultato, invero, alterni. Ma si sa: i cuori morbidi sono quelli che hanno già lavorato assai).

    I sogni invece si sono completamente dissolti nel mondo raccontato da un'altra nuova realtà nazionale di cui vale la pena di parlare: Brunori Sas, la formazione che spalleggia il cantautore cosentino Dario Brunori, al suo secondo album dopo essere transitato per il riconoscimento del premio Ciampi, per il miglior esordio nel 2009. “I poveri cristi” è un disco interessantissimo, magnificamente visuale e di vario italico citazionismo, perché dentro ci sentirete tanti echi, ma tutti piacevoli e digeriti – Rino Gaetano, Edoardo Bennato, Luca Carboni. Ma l'aspetto narrativo, quasi cinematografico, del disco è la sua forza primaria: benvenuti nel disgraziatissimo mondo dell'instabilità nella quale ci stiamo abituando a vivere in un paese che va a rotoli, dove il lavoro è utopia, le sicurezze sono andate in malora e perfino fare seriamente all'amore è fuori discussione, perché qui si tratta di sopravvivere, scrutandosi tutt'al più timidamente di lontano.

    “Poveri Cristi” non è mica un titolo simbolico: è proprio una raccolta di canzoni sulla miserabilità del presente locale, a opera di un mezzo urlatore dalla voce che raspa e commuove, scherza e talvolta gigioneggia troppo. Questo può essere il pericolo in cui Brunori potrebbe parcheggiare la sua promettente carriera, nell'eccesso di macchiettismo, nelle tentazioni goliardiche, nelle troppe celie attorno al precariato. Invece i suoi personaggi sono intensi quanto certi film d'esordio di autori che abbiamo un po' perso per strada, e ripenso ai debutti di Calopresti, Mazzacurati, Soldini – oggi tutti piccoli maestri, ma per un momento infiammati come non sarebbero poi più stati, dopo. Ecco: Brunori ha la visione, il fiotto creativo, ha anche una prima intuizione di forma da darle, ma che però non è quella compiuta ed efficace, schiacciato dai troppi predecessori, dalla troppa memoria musicale che gli si agita dentro (la sua grottesca “Rosa”, ad esempio, sembra cantata zompettando tra “Gianna” di Rino e i pinocchi di Bennato, e non c'è che da preferirle gli originali). Ma grinta, voglia e idee non mancano in questo disco e perfino uno stile esecutivo decisamente retrò, ma smagliante, per come sembra ignorare gli ultimi 30 anni di musica italiana. Insomma di talento, qui come tra futuri disoccupati chiamati Strisce, ne scopriamo da vendere. Il Meridione abbaia e accende raggi di sole musicali: “Economico sarcasmo”, ci viene da chiamarlo, e se fossimo oltremanica ci avrebbero già coniato sopra il nuovo subgenere per il pop, modello autunno-inverno 2012.