Nel nuovo album di Luca Carboni il piacere di canticchiare di ritorno dal mare

Stefano Pistolini

In questa strana estate musicale italiana, un nome mancava malinconicamente all'appello.

    In questa strana estate musicale italiana, rallegrata soprattutto dalla vena dei veterani che si sono presi l'incarico di dare ancora forma e sostanza alla nostra descrizione nazionale a base di canzoni, un nome mancava malinconicamente all'appello, ma perché la distrazione è nostra e lui invece era in movimento, tanto che tra pochi giorni scenderà in campo col suo nuovo album. Parliamo di Luca Carboni, che abbiamo caro fin da quando lo conoscemmo ragazzino, ancora carne mista tra i prodromi del new rock bolognese (del quale era stato un personaggio) e l'avvio d'una carriera da solista che subito assunse caratteri di qualità, per la sua capacità di intercettare e naturalmente rappresentare uno stile, o meglio ancora un modo italiano, particolarmente italiano: quello del giovane cane sciolto, senza particolari appartenenze ma con risonanze infinite, una certa predisposizione ai guai e alle trasgressioni lievi e severe, e un'enorme sfera emotiva, così espansa da contaminare, quasi sabotare, il resto.

    Le prime, classiche composizioni di Luca, in cui parlava di se stesso e della sua gente, amici, fidanzate e incontri momentanei, a distanza d'un quarto di secolo sono lì a raccontarci, senza bisogno di interpretazioni, com'eravamo, perché hanno una purezza intatta, una visualità splendente e una morale che rasenta, fatalmente, la logica. Poi, col passare degli anni, Carboni ha assunto – non ce ne voglia, anzi, siamo pronti ad annetterci alla sua condizione – la fisiognomica e il ruolo dell'ammaccato. Non sappiamo se quel suo persistente reducismo, quel suo essere perennemente (o il suo voler dare l'impressione d'essere) un sopravvissuto, uno con la vocazione della deriva, sia prevalentemente un fattore estetico o il risultato di un destino: quel che è certo è che a Carboni e alle sue canzoni ci è impossibile non accordare ogni volta un occhio di riguardo, di favore, un ammiccamento, insomma stare a sentire come ce la dice stavolta.

    Carboni, va detto, non ci delude quasi mai. Perciò, superata la sbadatezza, ci siamo accorti che c'era anche lui ai nastri di partenza di questa stagione, con la sua ironia e il suo mood e capace d'individuare un altro di quegli andamenti lenti, quei magnetici swinganti su cui ha appoggiato alcune delle sue migliori composizioni. Non che la sua poetica si sia spostata di un millimetro, e già dal titolo lo s'intuisce, in questo singolo che anticipa l'album vero e proprio, “Fare le valigie”. Ci risiamo con l'idea di spostare le tende, del viaggio che è più esperienza della meta, della complicità espansa, rieccoci con la voglia di prendersi una pausa da dubitabili occupazioni creative che portano con sé angosce semipermanenti. Il pezzo è delizioso e Luca Carboni è ancora un piccolo maestro quando si tratta di mettere in un versetto una condizione: “Mi piace pensare a un secolo fa / a quelli che han creduto nella velocità / mi piace il domani e le novità”, canta. Già, qualcuno ricorda il bolognesissimo mito alternativo dei “ragazzi veloci”, quelli che capivano al volo, intercettavano i segni dell'inedito in arrivo da chissà dove, li facevano propri e li rielaboravano?
    C'è stata una vera sottocultura sull'argomento e Carboni è qui a riparlarne con grazia, savoir-faire e con quella sfumatura malandrina ed esoterica che ci ha sempre convinto della sua utilità, mica per scopi nazionali o missioni umanitarie, ma per svoltare la serata a casa dell'amico, inconcludenti, immaturi e stupidi, ma non peggiori degli altri, né per spazio né per tempi.

    Sì, lo so, c'è la vecchia questione del pensiero debole, che a un certo punto avrebbe preso troppo piede e troppo spazio nella nostra canzone, lo spirito da cameretta, la mancanza della visione d'insieme e della prospettiva adulta, quella che magari avrebbe dato alla nostra musica un impulso ben più costruttivo. Invece le canzoni che continuano a prenderci più facilmente sono queste, che parlano di andare al mare, di vivere in pace, armonia e perfino umiltà.

    Che volete farci? D'altro canto anche nelle selezioni internazionali per noi è stata una strana stagione calda: imprevedibilmente, le cose che ci hanno più intrattenuto appartengono al mondo minore dell'edonismo prezzolato, ma non sguaiato, cose nelle quali ci piace il gusto di volare bassi, chessò Bob Sinclar piuttosto che David Guetta, del quale vi segnaliamo (se siete in vena di figuracce con gli amici) il nuovo levigatissimo, cretinissimo quanto spassoso album, “Nothing but the Beat”. Poi, per carità, torneremo presto seri e accigliati e già abbiamo quell'album di Richard Buckner, “Our Blood”, che da settimane aspetta sul tavolo d'essere degnamente presentato. Lui è un gigante dell'alternative country americano, che cantautori come Bon Iver citano come principale ispirazione. Solo che ha fatto un disco tanto denso quanto tristissimo, grondante angoscia. E noi, per un momento – soltanto per un momento, certo – come Luca Carboni abbiamo provato il desiderio di fare le valigie, cambiare aria, canticchiando “perché mi piace sentire il tempo che va / sapere che tutto poi cambierà”.