Nonostante tutto gli Smiths sono ancora attuali, ecco perché

Stefano Pistolini

Dissolti già nel 1987, dopo una parabola durata appena cinque anni e un pugno di album, poi ripercorsi da biografie, storie e leggende d'ogni ordine e grado, ripetutamente ridimensionati da colui che ne fu il leader, il volto e la voce, Steven Morrissey, gli Smiths si rifiutano di morire e trovar pace, ma anzi, periodicamente risorgono alla pubblica attenzione.

    Dissolti già nel 1987, dopo una parabola durata appena cinque anni e un pugno di album, poi ripercorsi da biografie, storie e leggende d'ogni ordine e grado, ripetutamente ridimensionati da colui che ne fu il leader, il volto e la voce, Steven Morrissey, gli Smiths si rifiutano di morire e trovar pace, ma anzi, periodicamente risorgono alla pubblica attenzione. L'occasione per riparlarne è un cofanetto che ne raccoglie l'opera omnia. Ancora di più a impressionare è l'onnipresenza delle strazianti ballate trascinate dal lamento lirico di Morrissey nella pubblicità, sulle insopportabili passerelle, in ogni cunicolo dei social network, nei bisogni di una musica per sonorizzare certi momenti psicologici. Il fatto è che Morrissey, Johnny Marr e i due fidi gregari della sezione ritmica lavorarono freneticamente a un progetto estetico, e questo non è contenibile in una semplice dimensione temporale.

    Eppure la scena dalla quale il gruppo emerge è così lontana dal presente: lo stress thatcheriano, nel cuore del quale Marr e Morrissey creano una band dalla dispettosa identità invisibile, suggerita dal cognome più banale d'Inghilterra. Le copertine monocrome degli extended play pubblicati a distanza ravvicinata, le misteriose cover star, quell'atmosfera d'innocenza perduta, di sottile perversione, di arrendevolezza, di predisposizione alla sofferenza, colpiscono dritto al cuore i ragazzi d'oltremanica e poi quelli del resto d'Europa, e la notizia straordinaria è che una così franca esplicitazione di condotta, di malessere e di sensibilità gay acquisisca da subito una popolarità, un amore senza alcuna definita attitudine sessuale. Gli Smiths trionfano ugualmente nel mondo gay e in quello straight perché il loro cammino artistico è elevato e non si cura delle convenzioni, perché la loro eccentricità è artistica, perché anche Oscar Wilde seppe fare, come Morrissey, della sua ingombrante omosessualità un oggetto culturale adorato da chiunque.

    E poi c'è quel denso sottotesto sessuale di cui la musica degli Smiths è intrisa: mentre l'Aids assumeva la dimensione d'incubo collettivo, Morrissey e i suoi inscenavano una sopportazione fatta di superiorità alla carne. Il sesso non è tutto, sostenevano con noncuranza, quando si ha una visione intensa della vita. Il sesso non può essere punizione, non può essere rischio e non è costrizione: è franchezza, sudore e perfino arte. Lo dicevano nelle loro canzoni piene d'incontri e abbandoni, in un tempo nel quale, invece, la fuga dalla passione era la parola d'ordine d'un mondo pop sotto choc. Tagliente ironia, culto del gesto, rifiuto delle routine, uccisero il gruppo giusto in tempo per consegnarlo alla dimensione mitica che oggi ce lo restituisce intatto, cristallizzato nel suo splendore, ancora giovanissimo, potente, d'immutata grandezza – quella di “Meat is Murder”, “The Queen is Dead”, “Strangeways, Here We Come”, inclusi in questo cofanetto insieme alla collezione dei singoli e alle registrazioni live. Un box set così esauriente e vitale, questo allestito dalla Rhino Records sotto il titolo di “The Smiths Complete”, da riproporre, ancora una volta, il tema del repackaging come fenomeno protagonista della stagione. E, comunque, gli Smiths sono attualissimi, questa è la notizia. La loro musica è elettrizzante e sexy come la ricordavamo. Sono ancora un'esperienza culturale e un brivido sensoriale. Per il resto viene da pensare che il grande sonno di questo momento d'autorevole passatismo, non possa che precludere a qualcosa di nuovo ed entusiasmante che ora non riusciamo neppure a immaginare. E almeno questo, è bellissimo.

    Programmato a Occupy Wall Street

    Segnalazione perplessa invece per “Pull Up Some Dust and Sit Down”, togliti la polvere e siediti, il concept album col quale Ry Cooder si rimette i panni del cantastorie politico con echi di Woody Guthrie, realizzando un disco militante, certamente programmatissimo negli accampamenti di Occupy Wall Street. Folk, blues, tanto tex mex (Flaco Jimenez incluso) per ricantare i diritti dei diseredati ma con tutta la prosopopea e la retorica del songwriter colto e impegnato. Tema: la povertà in America e le orribili macchinazioni all'origine della rovina. E poi i sogni infranti degli ultimi arrivarti, gli immigrati clandestini, usati e violentati. Una lezione d'educazione civica sui disastri della recente storia americana all'insegna del più casto spirito politicamente corretto, con tutti gli ammiccamenti e i florilegi del caso. Sinceramente irritante, e privo di quello etnomusicologico e cinematico di “Chavez Ravine”. Solo passatista, e in questo caso, senza anima né direzione.