Il rock del XXI secolo, alla faccia di chi lo dà per morto

Stefano Pistolini

Sotto il fatale titolo “Il grande silenzio del rock. Questa volta è finita davvero”, Gino Castaldo su Repubblica ritiene utile sancire nuovamente la morte del rock.

    Sotto il fatale titolo “Il grande silenzio del rock. Questa volta è finita davvero”, Gino Castaldo su Repubblica ritiene utile sancire nuovamente la morte del rock. Dice che nelle classifiche americane e inglesi non c'è ombra di rock, che il pop disimpegnato impazza nella cultura-Rihanna che strega i teenager, che dalle indignazioni di Occupy non esce fuori niente di musicalmente forte, che i veterani tipo Bono non graffiano più, che ci sono altri bravi (cita Bon Iver e Fleet Foxes) ma biecamente conservatori, dal momento che “non fanno che ripetere stili e modalità del vecchio rock, appena rinfrescate a uso e consumo delle nuove generazioni” (sic). Inoltre, continua il critico di Repubblica, “non ci sono nuovi inni, pezzi come ‘We Shall Overcome', ma neanche pezzi incendiari come ‘London Calling'”. E se va in scena un raduno, a officiare sono i soliti noti, Patti Smith o David Crosby. In omaggio alle mode, Castaldo aggiunge che l'unico trillo musicale che ora incuriosisca sia quello di Twitter, senza elaborare il fatto che quelle connessioni permanenti oggi proiettino l'artista vicino al fan e lontano dal mito, modificando radicalmente una dinamica, ma certo non sopprimendola.

    Mah. Niente di nuovo, se non la riproposizione del pacificante teorema sottoscritto da tanti stagionati addetti ai lavori, per un pubblico a cui offrire scenari solutivi: il rock è finito, regna il pensiero debole, i dinosauri sonnecchiano e i nipotini non sostengono il confronto con quelli veri, quelli dei tempi eroici. Infatti guardate le classifiche: robetta. Ma questo è solo un banale ragionamento turistico. Un modo sbrigativo per arrivare a conclusioni che non richiedano impegno. Potrebbe essere frustrazione, perché i quotidiani oggi s'occupano poco di musica. Basta sfogliarli per capire che chi governa la musica sui grandi media, chi ne scrive, chi decide spazi e contenuti, chi individua il pubblico di riferimento (adulto e disincantato. Perché un ragazzino dovrebbe cibarsi queste giaculatorie?) sia demotivato. Si cucina la solita pietanza con vecchi ingredienti, salvo lamentarsi che i sapori hanno stufato. E si offre la spiegazione: oggi i tempi non sono quelli di quando eravamo giovani noi, e lo erano anche Bob Dylan o i Clash. I ragazzi non fanno che pendere dalle labbra dei padri, non inventano e, se trasgrediscono, lo fanno da dementi.

    Siete pronti a prendere per oggettiva questa rappresentazione? A credere che non sia quella percepita dalla pigrizia delle proprie certezze? Più che al risultato di una ricerca, non fa pensare a una distratta occhiata dall'alto, senza voglia d'andare dentro la musica d'oggi, i suoi generi, i suoi rituali, diversi da quelli “classici”? Per non parlare delle “classifiche”: quali classifiche, a fronte di un mercato ufficiale che sprofonda, di consumi lontanissimi dagli acquisti discografici, di una rivoluzione del settore che continua a risultare indigesta alla stampa generalista? Il mondo della musica, nella percezione di chi adesso ha vent'anni o meno, abita l'altra faccia della luna, dove a Bono possono al massimo dedicare un cippo. Parlare di classifiche di Billboard in questa sede, ricorda le risate che si facevano nell'età “eroica” i coetanei di Castaldo, scorrendo le charts di “Sorrisi e Canzoni” e confrontandole coi consumi “veri” del loro gruppo generazionale. Sorvoliamo poi sull'osservazione che musicisti oggi di primo piano non facciano che rifare il già fatto. E' risibile, quanto lo sarebbe stato scrivere che i Rolling Stones fossero cloni dei veri bluesmen.

    Perché sottostare a questa ansia del giudizio, sprofondando in simili massimalismi? Il problema è nel servizio offerto in tali circostanze.
    Perché le cose non stanno come quest'articolo le presenta.
    Stanno così se si smette di cercare e sperimentare, di seguire sentieri meno illuminati, che però sono “rock” per come s'inoltrano in direzioni esplorative. Di ciò esiste una mappa ricca, densa, piena di meraviglie e di cultura. Di sicuro diversa dalla scena che ci cullava negli anni Settanta, che si è modificata negli anni Ottanta e che poi ha cominciato ad appassire. Se volete appassire con lei, là dentro, padroni di farlo. Senza dimenticare di scrivere che là fuori c'è, vivacissimo, un mondo da scoprire. Solo che voi non avete più voglia di uscire.

    Intanto, a Budapest
    Per esempio. Una delle tracce da seguire. Yonderboi, oggi 31enne, qualche anno fa enfant prodige della misteriosa Budapest, dove le cose si muovevano più veloci di quanto si potesse supporre. A inizio millennio, Yonderboi piacque alla scena electro-dance alternativa d'oltremanica. Lo incontrammo nella sua città: un tipo affascinante, che raccontava come i primi computer su cui componeva fossero delle trappole senza Ram. Adesso, dopo un lungo iato, Yonderboi torna con un disco prezioso, “Passive Control”, evoluto, raffinato, pieno di soluzioni inattese, di grandi canzoni, di eccellente vocalità, di fluida ritmicità e gioia. Chissà se gli inglesi gli offriranno una seconda chance. Converrebbe tenergli la porta spalancata: suona così il rock del XXI secolo.