Perché il soul è vivo

Stefano Pistolini

Quanto ci piacciono le favole! Tanto più declinate in forma di rock, la stessa che è materia dei film di Cameron Crowe

    Quanto ci piacciono le favole! Tanto più declinate in forma di rock, la stessa che è materia dei film di Cameron Crowe. Perciò, tutti in viaggio per un posto chiamato Athens, ma non quello famoso della Georgia e dell'università nella cui pancia si misero insieme i Rem. Questa è Athens, Alabama, ventimila abitanti al confine settentrionale dello stato, ma anche qui – gli americani sono gente logica, che assegna i nomi seguendo una consequenzialità prevedibile – una college town, anche se di dimensioni ridotte (perché chiamare Atene un posto, se non per sottolinearne l'intenzione “culturale”?).

    E' qui che una ragazza dall'aria più improbabile che si possa immaginare come frontwoman di una band qualche anno fa ha messo in piedi gli Alabama Shakes, la formazione con cui dar vita alla sua rivisitazione della soul music. E ci sta che Brittany Howard sia tutt'altro che una cover girl: sovrappeso, occhialuta, con un cesto di strani capelli in testa e con l'eleganza di una secchiona stressata, con quei vestitini a fiori che si mette e le stanno malissimo. Però ha una voce che è miele puro e un'idea del soul così immediata e irresistibile, che le porte hanno cominciato a schiudersi per lei una dopo l'altra, nella noncuranza, perfino nel capriccio che una tipa così bizzarra stia salendo nel cielo delle stelle musicali con la velocità d'un missile. La scorciatoia per capire di cosa stiamo parlando è procurarsi “Boys & Girls”, album di debutto degli Alabama Shakes che ha la forza di resuscitare dal lutto gli ultras di Amy Wynehouse, perché la forza della musica è quella di ripartire sempre, di non dimenticare, ma semplicemente di passare alla canzone successiva, come fanno i jukebox. Intanto l'ambiente americano e fa rumore attorno a Brittany: Jack White e David Byrne, Bon Iver e perfino Robert Plant fanno a gara a sponsorizzarla, a invitarla a collaborare, mentre i talk-show intelligenti sono in fila per annunciare la band nei loro momenti musicali. Poi s'abbassano le luci e appaiono questi ragazzotti dall'aria da pigri studenti fuori corso e davanti al microfono la tipa con la chitarra rossa, gli occhi chiusi e la voce mugolante, epperò la serata si tinge di oro-rosa e sembra risentire Otis quando s'arrampicava sulla progressione di “Try a Little Tenderness”.

    Le canzoni della Howard raccontano storie personali, di un'adolescenza appartata e un po' scartata, insieme a qualche amico, loser come lei – ma poi c'è la volontà, la voglia di farcela, lo sguardo di chi ti è veramente caro a tenerti su. Questa è musica dei vecchi tempi che scintilla di splendore anche oggi, omaggiando l'incontenibile potenza di quella qualità “eterna” celebrata da Reynolds di “Retromania”, e il fatto che una ragazza così, con un futuro di postina e una voce da Janis Joplin, sia capace ora di paralizzarci, perché possiede il segreto del blues. E allora, per l'ennesima volta, siamo costretti a ricordare che tra i misteri della bellezza sta quello che essa può risiedere dove meno te l'aspetti e se si parla di musica, conviene dare sempre un'opportunità a chi vuole farsi ascoltare. Può capitare che, pochi istanti dopo, si finisca avvinti alla sua musica, come se la si conoscesse da sempre. Date subito una chance a Brittany e ascoltate gli Alabama Shakes, non starete perdendo tempo.
    E poiché la puntata di oggi la devolviamo all'entusiasmo del soul revival nelle fresche radici della nuova musica americana, diamo spazio a Mayer Hawthorne, un altro che si muove nei paraggi, sull'asse Detroit-Los Angeles. Anche qui l'intenzione è quella di suonare rhythm'n'blues dando all'operazione una patina intellettuale – lynchiana, verrebbe da dire, postmoderna, un crogiolarsi nella naturalezza camp dell'America del secondo Novecento, per com'è, vista da oggi, una terra del rimpianto. Anche Mayer ha gli occhiali, l'aria da nerd e maneggia una voce in falsetto incorniciata dal lavoro dei suoi coristi e di un'egregia sezione fiati. L'album giusto si chiama “How Do You Do”, dotato di una scaletta aderente all'estetica dell'“happy soul” (meno giaculatorio di quello della dolce Brittany di cui sopra, più da sabato nel parco, nei dintorni del blue-eyed soul di Michael McDonald). I pezzi sono il prodotto di una raffinata confezione eminentemente radiofonica, agile, diretta, spartana ed elegante, in un solco che negli ultimi anni è stato dimenticato, a favore di tanti barocchismi – dai quali non è esente neppure la lodata Adele. E il bello è che Hawthorne non è un cantante eccezionale o un compositore fuori dalla norma. Ma lavora con abilità e sceglie bene tra gli stilemi del groove R & B anni Settanta (perché un vocalist dello spessore di Raphael Saadiq non ci ha dato un album come “How Do You Do”?). E quelli che usa il miope Mayer sono i suoni dei quali – dai Temptations in poi – uomini e donne dell'affaticato occidente hanno scoperto di non saper fare a meno, neppure fosse questa la musica degli dei.

    A Long Time - Mayer Hawthorne from MayerHawthorne on Vimeo.