“America” è un atto d'amore di Dan Deacon per il suo paese, con tanto di app per iPhone

Stefano Pistolini

Il territorio artistico in cui agisce Dan Deacon confina con quelli di Frank Zappa, dei Kraftwerk, di Brian Wilson e del più oscuro noise punk del Village newyorchese. E la sua è un'ispirazione non troppo lontana da quella, da un lato, di Van Dyke Parks, e dall'altro di Sufjan Stevens, soprattutto nella considerazione della musica contemporanea come un linguaggio artistico privo di limiti.

    Il territorio artistico in cui agisce Dan Deacon confina con quelli di Frank Zappa, dei Kraftwerk, di Brian Wilson e del più oscuro noise punk del Village newyorchese. E la sua è un'ispirazione non troppo lontana da quella, da un lato, di Van Dyke Parks, e dall'altro di Sufjan Stevens, soprattutto nella considerazione della musica contemporanea come un linguaggio artistico privo di limiti. Quando un artista del genere presenta un album, il terzo della sua produzione, dal titolo “America”, infarcito di suite, movimenti e titoli emblematici, l'ascoltatore navigato comincia a fremere dal nervosismo: un altro buffone magniloquente? Qui però interviene la biografia del musicista a sponsorizzare un ascolto sereno al suo lavoro. Deacon, infatti, è stato, nella dozzina d'anni della sua carriera pubblica, l'epitome dell'underground, vissuto nel modo più marginale e meno autoreferenziale che si possa immaginare. A confermarlo basta la sua fisicità da antistar (pelato, occhialuto, grasso, un orsetto col vezzo di avvolgersi nei golf della nonna) e un'occhiata alla stampa allorché, raramente e sempre paternalisticamente, si è occupata di lui. “America” non è il prodotto di un alternativo a oltranza che s'è stancato della sua marginalità né un manifesto d'insoddisfazione patriottica. Piuttosto è un variopinto, disordinato, vitalistico e molto elettrico atto d'amore verso la terra che Deacon abita e che instancabilmente traversa inseguendo i suoi concerti, spesso utilizzando il più improbabile dei mezzi di trasporto americano: il treno. E' una sinfonia scritta da un musicista punk a bassa fedeltà e a scarsa autoconsiderazione, cresciuto a tv trash e fumetti assurdi, passato attraverso l'irresolubile fase delle insicurezze ed evolutosi in un artista di scarso successo ma notevole creatività, testardamente libero. Ecco l'America vista dai finestrini, ammirata e commovente, possente, incomprensibile e solenne. C'è tanta elettronica, tanto citazionismo rileyiano, ci sono indizi di Copland e Ives, ci sono sintetizzatori economici e minimalismo, ma c'è anche un'orchestra di 22 elementi e un coro che intona “True Thrush”. Ci sono i documentari di Ken Burns, c'è Spiderman e ci sono i film di Francis Ford Coppola (che per ricambiare ha affidato a Deacon la colonna sonora del suo nuovo film, “Twixt”). Ci sono deserti psichedelici e panorami sonici, c'è un sacco di vitalità ed echi dei Beach Boys, radice musicale originale di questa terra nella sua geografia psichica contemporanea. E' un album trascurabile e fondamentale al tempo stesso. Ne potete fare a meno, perché non contiene capolavori. Ma vi piacerà ascoltarlo, perché veicola il segno di un progresso in atto. E per confermare la propria adesione al presente, il grasso Dan ha anche voluto inventare qualcosa di modaiolo: una applicazione per smartphone che permette a chi assiste a un concerto di partecipare interattivamente all'evento, grazie alla luce emessa dall'arnese che si sincronizza sui ritmi musicali provenienti dal palco. Strano talento, no?
    A non troppa distanza dalla musica di Deacon, risuona quella di Delicate Steve, nome d'arte del chitarrista del New Jersey Steve Marion, che in sala di registrazione agisce in solitudine, occupandosi di tutto, mentre dal vivo si fa accompagnare da una band di amici delle sue parti, gli Smallboypants. Dello stravagante talento di Delicate Steve si è accorto David Byrne che l'ha arruolato per la sua etichetta Luaka Bop e gli ha prodotto il secondo album, “Positive Force”. Un disco strano, divertente, quasi interamente strumentale, dominato dalla chitarra di Marion, suonata in stile “slide” e su intricate sequenze di note alte. I timbri sono gioiosi, lievi, ricordano quelli dell'ultimo George Harrison, ma le composizioni suonano come dei gradevoli sottofondi, difficilmente memorizzabili, ma capaci di creare un ambiente sonoro straordinariamente piacevole, bizzarro, postmoderno. Delicate Steve, per promuovere l'album, ha nascosto in giro per Brooklyn dei riproduttori digitali, dando ai volenterosi degli indizi via Web per localizzarli. Il premio, portandosi la cuffietta da casa, è ascoltare in anteprima un brano del giovane musicista.