La tempesta perfetta di Dylan

Stefano Pistolini

Giorni fa un insigne dylanologo osservava come la caratteristica del nuovo album di Bob Dylan, “Tempest”, fosse di magnificare uno dei parametri dell'essenzialità pop: “Mette in primo piano la batteria e il basso e sopra ci spalma la voce”. Il resto, per quanto prezioso, è decorazione.

    Giorni fa un insigne dylanologo osservava come la caratteristica del nuovo album di Bob Dylan, “Tempest”, fosse di magnificare uno dei parametri dell'essenzialità pop: “Mette in primo piano la batteria e il basso e sopra ci spalma la voce”. Il resto, per quanto prezioso, è decorazione. “Da noi non è concepibile registrare un disco così”, aggiungeva l'amico, veterano della scena italiana. Si potrebbe aggiungere che Dylan i solchi, più che percorrerli, li scava e che, se si lavora solo di battito ritmico e fraseggio pulsante, è perché la voce sa occupare con tutta la magnificienza possibile il resto dello spettro sonoro. Non fosse così, se Dylan non potesse contare su delle consapevolezze, su delle sicurezze inattaccabili e lungimiranti, come potrebbe trovare a 71 anni la convizione per scalare la montagna d'un nuovo album di canzoni originali, dove ripartire da temi noti ed esplorati della sua poetica, per portarli, virtuosisticamente, un passo avanti, un metro in profondità verso le loro radici esoteriche. Poi, scartata la copertina di rossa statuarietà, “Tempest” s'annuncia come un disco altamente visuale, come spesso Dylan ha avuto voglia di fare. I suoni di “Duquesne Whistle” provengono da un'onirica baracca rurale, un whisky joint dove randagi d'ogni origine, accomunati dalla noncuranza verso il domani, si ritrovano per superare la notte, cercando compagnia, oblio ed effimere consolazioni. C'è la band sul palco, guidata dal perdente che nessuno ricorda donde provenga, ma che conosce più storie del diavolo e più segreti d'una prostituta. E' la parte che a Bob piace, ora che ha arruginito ad arte quel che gli resta delle corde vocali e che possiede come nessun altro gli slang arcaici della musica americana. Si parte con una train song dal capriccioso sapore anni Trenta, nemmeno a suonare non fosse Dylan e la sua band ma Bob Wills & His Texas Playboys, i maestri del Western Swing. Poi “Soon After Midnight” sembra un delizioso lento romantico, ma invece è una canzone nella quale le femmine muoiono facili e tutt'altro che bene. “Narrow Ways” è un dignitoso Chicago blues, “Long and Wasted Years” è una ballata rituale dal respiro epico, che vince facile sull'immaginazione dell'ascoltatore e lo sottomette emotivamente (spiegandogli come lui porti delle lenti davanti agli occhi per nascondere dei misteri che non saprebbe mascherare), mentre i timbri convenzionali di “Pay in Blood” contrastano fastidiosamente con la grattugia vocale del capo. Superata la boa di metà disco, arriva il banjo di Donnie Herron a cadenzare “Scarlet Town”, nenia profetica sull'incedere del tempo verso una fine che non promette niente di buono. Dopo, con “Early Roman Kings”, tocca alla lezione di storia del professor Bob sui tempi antichi in stile “Mannish Boy”: il mondo del mito e i peccati del passato fungono da introduzione alla triade conclusiva di “Tempest”. I 9 minuti di “Tin Angel” sono cantilenante narrazione per quadri, un massacro elisabettiano ricamato di poesia e di significati secondari come Shakespeare. “Tempest”, title track, occupa 14 minuti per riscrivere il naufragio del Titanic che, pure, sappiamo, avvenne in un'immobile notte di luna piena. Un capolavoro surrealista che traduce in evocazioni una nuova versione dell'affondamento. Quindi Dylan chiude il disco rivolgendosi a uno dei pochi dei quale ammette una grandezza pari alla sua: Lennon, del quale veste la pelle negli ultimi istanti di vita, immaginando come dev'essere stato per lui capire che i conti erano da chiudere senza rinvii. Una conclusione che lascia sbigottiti, storditi, colpiti. I dylanologi sostengono ora che il riferimento all'ultima opera del bardo secentesco, nel lessico simbolico di Bob, non può che equivalere all'intenzione di dire che, per quanto riguarda i dischi, si chiude qui. “Tempest” si allinea alla grandezza dei migliori progetti di Dylan, per la lucidità e il sapere col quale oggi maneggia una materia che con lui non può scendere al di sotto di una bellezza mistica. E per lo sconvolgente senso di malinconia, distacco e immanenza che porta in sé e che ci risuona addosso, monito fatale che sta già accadendo qualcosa di terribile che era scritto nelle stelle.