Il senso musicale della parola “triste”

Stefano Pistolini

Il venerabile settimanale britannico New Musical Express pubblica una classifica interessante, tra le tante (troppe) con le quali i periodici specializzati riempiono le pagine.

    Il venerabile settimanale britannico New Musical Express pubblica una classifica interessante, tra le tante (troppe) con le quali i periodici specializzati riempiono le pagine. Qui vengono elencate le 50 migliori “canzoni tristi” del pop. Mica male, già a partire dal concetto di “canzone triste” e dal ragionare sul perché un simile prodotto, capace di indurre vari livelli di commozione, depressione, mestizia e scoramento, possa stabilmente essere elencato tra i sottogeneri più popolari e ricercati. Struggersi di musica pare un'esperienza condivisa e variamente desiderabile, talvolta perfino veicolo di estasi. Crogiolarsi nell'etere desolato delle sad song predilette è una modesta ma persistente perversione, in fondo alla quale ci attende il sottile piacere dell'autocommiserazione e le tiepide acque della malinconia in cui immergerci. Certo, ognuno ha il suo modo di abbacchiarsi in musica. C'è chi se la gioca in casa e va giù piatto di Battisti, Guccini e “La città vuota”. Ma poi ci sono i capolavori internazionali della musica sconfortante e sfogliare l'elenco di NME fa riaffiorare episodi memorabili in cui abbiamo consumato la sublime pena, facendo al tempo stesso diligente pratica d'inglese, per poterci calare con cognizione di causa nella tristezza di giornata. Ci sono tornati in mente i turbamenti ai primi ascolti di “Eleanor Rigby”, prototipo beat di cantata della solitudine, con quei violini barocchi e la storia della donna che morì in chiesa e a cui nessuno venne a dare l'estremo saluto. Oppure l'alienante lamento, lungo quanto la nostra adolescenza, mentre per un milione di volte sentivamo Roger Waters, nell'elettrico 1975, mugolare che “siamo anime perdute che nuotano nella palla dei pesci rossi” – onanismo  pinkfloydiano di “Wish you were here”. Saranno stati tempi di giovanilistico struggimento, ma sfido ancor'oggi chiunque a mantenere le ciglia asciutte se si sta dietro agli argomenti gorgheggiati da Joni Mitchell in “A Case Of You”, quando modula  “Appena prima che il nostro amore si disfacesse / avevi detto che ero una presenza costante come la stella del mattino”, o a passare indenne per i singhiozzi con cui Robert Smith e i suoi Cure rievocano l'amore letteralmente perduto, dal momento che lei finisce arrosto in un incendio e a lui ciò non rimane che rimirarla nelle vecchie foto (“Pictures of You”). E come se la viveva chi, in un dopocena nella cameretta d'ordinanza, ascoltava dal giradischi portatile le note gocciolanti di “The Needle And The Damage Done”, ballata definitiva sulle droghe pesanti e i relativi funesti effetti, scritta da Neil Young con colui che ancora per poco sarebbe stato il chitarrista dei Crazy Horse, Danny Whitten, di cui di recente v'abbiamo raccontato la breve parabola e la tetra dipartita. Di aghi si parla anche nel titolo più triste di uno dei re della musica afflitta, il povero Elliott Smith. La sua “Needle In the Hay”, tratta la felicità appunto come un ago da cercare nel pagliaio, essendo lui per primo l'incarnazione dello sconforto. Ascoltarla commentare i fotogrammi dei “Tenenbaum” di Wes Anderson fu straziante quanto idilliaco, esattamente come seppe sempre conservarsi il grande Elliott nel suo cantico gramo. Lasciamo indietro poi fu il cantante triste per eccellenza, vocazione e destino, l'effimero Nick Drake, il più grande e triste di tutti, che sull'incapacità di non soffrire costruì la più smagliante poetica: i suoi tre album sono un distillato ferale, tragico e pericolosamente attraente, ancor'oggi da maneggiare con prudenza.

    Sottolineiamo invece un paio di new entry nell'elenco dei morbidi abbattimenti in musica, che provengono da altrettanti nuovi preferiti: Bon Iver, ovvero Justin Vernon che piantato dalla fidanzata si rinchiude nella celebre capanna e si costruisce l'autostrada per il successo, pavimentandola coi sospiri e le lacrime delle canzoni del primo disco, a partire da “Skinny Love” dove, in falsetto, si confronta con la sensazione che lui nulla possa fare per evitare che lei, Emma, non chiuda svelta la valigia e se la dia a gambe. Perfino il sensuale postadolescente Frank Ocean, artista che in questa estate ha amministrato una vera lezione evolutiva a tutta la galassia dell'hip hop, anche lui nel suo bellissimo primo disco “Channel Orange”, cede alla tentazione di scrivere una canzone di strazio. Si chiama “Swim Good” e racconta la storia di uno che non ce la fa più, che non sa portare il peso di un amore compromesso e dell'infelicità che ne seguirà. Alla guida della sua Lincoln punta perciò verso l'oceano con l'intenzione di buttarcisi dentro e di chiuderla lì. E noi, sotto la canicola agostana a sentire e risentire questa parabola suicida. Perché una voce, una batteria e qualche accordo ben messo, trasformano il tutto in desiderabile guarnizione della nostra vita. In sostanza, la rotonda sofferenza dei cantanti diventa sottile antidoto al nostro disagio e incoraggiamento a cercarci cose per le quali valga la pena d'andare dignitosamente avanti.