Il ruolo delle popstar in campagna elettorale, l'America e l'alternativa politica alle vecchie piattaforme

Stefano Pistolini

 

Una riflessione sul ruolo giocato dalle popstar in occasione delle recenti presidenziali Usa, va spesa. Infatti fa impressione quanto abbiano partecipato al rituale e, al tempo stesso, quanto questa loro adesione attiva vada normalizzandosi.

    Una riflessione sul ruolo giocato dalle popstar in occasione delle recenti presidenziali Usa, va spesa. Infatti fa impressione quanto abbiano partecipato al rituale e, al tempo stesso, quanto questa loro adesione attiva vada normalizzandosi. Dieci, vent'anni fa abbiamo imparato che fosse normale che la mobilitazione collettiva (e il pressing per attivare qualche forma di “generosità”) al cospetto di grandi drammi collettivi – una guerra, la fame nel mondo, un uragano micidiale – fosse ufficialmente entrato a far parte delle competenze dei musicisti di successo internazionale. Che adesso di raccattare milioni e d'invitare alla solidarietà nel dopo-Sandy se ne occupino, chessò, Billy Joel e Spike Lee è perfettamente plausibile. Che il procedimento continui, fino a trasformare le stesse personalità in figure apertamente intenzionate a far propaganda per il loro beniamino, è un'altra cosa a cui ci dobbiamo abituare. Con prerogative interessanti, che spingono tutte nella stessa direzione della post-politica, ovvero di una trasformazione interpretativa degli scenari secondo logiche che erano del mondo dello spettacolo, adesso applicate alla politica. Ad esempio la centralità delle personalità, secondo i dettami del protagonismo, della delega ad personam e anche del divismo. Gli endorsement pronunciati in occasione dell'ultima corsa alla Casa Bianca erano strettamente personali, riservati all'uomo non certo alla sua ideologia, sganciati da programmi e prospettive, dei veri mandati ad agire per-conto-di, nel nome d'una percepita risonanza spirituale e delle intenzioni. Il bello è che – sarà il cambio dei tempi o la necessità dei voti – anche da parte degli oggetti di questo interesse, i candidati, in particolare Barack Obama, l'atteggiamento si è modificato. Niente più graziosa degnazione e sintomi di superiorità appoggiati sulla magnitudine delle aspirazioni, ma una percepita sostanziale condotta paritetica: ci si parla tra uguali, ad altezza d'occhi, solo che si fanno mestieri diversi – e comunque si comunica, in entrambi i casi, coscienza, dignità e modi di superamento dei mali del mondo. Perciò è normale che, come un monarca rinascimentale, Barack se ne sia andato in giro per la nazione sul suo jet-carrozza, scortato dal musico personale, in arte Boss (che l'avrà apostrofato col nomignolo di “Prez”. Ergo, incrociandosi davanti alla porta del cesso dell'Air Force One, lo scambio sarà stato: “Hi Boss”, “Hey Prez”, che Dio ce ne scampi). E che questi, a ogni tappa, condiva l'invocazione per qualche preferenza in più con un paio di canzoni di lotta e inviti ben più perentori a non fare cacchiate e a mettersi da subito in fila davanti al seggio. Il reverendo e il motivatore. Il visionario e quello che fa il gioco sporco, taglia corto e dice: “Basta cincischiare. Se credete in me, se cantate le mie canzoni, fate come vi dico io. Votatelo!”. Starsky e Hutch. Credo abbia funzionato. Certo, limitatamente a un pubblico. Ma con notevole presa. Creando, un modello. La comunicazione elettorale a 2 velocità. Con annesso memorabile concerto. Pensateci: è un solco da esplorare, ma promettente. Non più i casuali abbinamenti, tipo “stasera sul palco di Piazza Grande comizio del compagno Bersani. Segue concerto di Francesco Guccini”. No. Veri ticket, magari impermanenti. Ma interconnessi almeno per la durata della campagna. Coro compreso o Lady Gaga che tiene concerti vestita come una suffragetta di Barack: è il contorno, l'eco che si diffonde tra audience differenziate. Ma il pard, il compagno di viaggio, il socio e il compare dev'essere una rockstar di prima grandezza, sempre la stessa. Un fidanzamento elettorale tra politica e showbiz, stile XXI secolo. Basta valutare: ha fatto più rumore la partecipazione di Springsteen al finale della rincorsa, o quella di Joe Biden? Chi ha smosso più swingers? E se Romney avesse risposto per le rime, avrebbe suscitato lo stesso interesse? Stanno forse qui i motivi della sconfitta? Valutiamo. Chi poteva scegliere? Abbiamo scartabellato tra le dichiarazioni di sostegno ufficiali. Abbiamo trovato il vecchio Clint, il vecchio Arnold, il vecchio Sly, lo psichedelico Chuck Norris, la monellissima Lindsay Lohan. O, ancora, l'ex-supermodella Cindy Crawford, un produttore cafone come Jerry Bruckheimer, band un po' giù come gli Oak Ridge Boys e i Lynyrd Skynyrd – quelli ancora vivi. Rockstars? Beh c'è  Ted Nugent, Gene Simmons, Kid Rock e quel genio di Vanilla Ice. Che dite? Meglio di no? Soprassediamo? Neanche se sull'aereo “Believe in America” fosse montata Jenna Jameson, porno-scrittrice, fervente fan di Mitt? Poteva essere l'antidoto al Boss. Invece di aprire i comizi, fare l'aftershow. Sennò restano solo le noiose piattaforme politiche. Pensiamoci. Una volta cominciato, è impossibile rinunciare a sentirsi pop.